I Redattore Sociale Trento 12 marzo 1999

Redattore Sociale

“La qualità dell’informazione sui temi del disagio sociale”

Intervento di Stefano Trasatti

 

Stefano Trasatti - segretario nazionale Cnca* 

Non è un caso che la prima edizione regionale di Redattore Sociale si svolga in Trentino Alto Adige. Per quella che è la mia esperienza, qui l'attenzione dei mezzi di informazione locali ai delicati temi che ci interessano è un po' più sviluppata che altrove. Questo anche perché è superiore alla media la consapevolezza dell'importanza dei mass media per la propria azione sul territorio, consapevolezza maturata nelle associazioni del volontariato e del non profit della regione (l'adesione di oltre 30 realtà all'iniziativa di oggi ne è una testimonianza). Sembra insomma trovarsi a un livello più avanzato quel rapporto di reciproco ascolto tra giornalismo e mondo del sociale che credo sia l'unica strategia per rendere più sensibile l'intera produzione informativa.
Tuttavia anche qui questo rapporto non è idilliaco. Anche in Trentino Alto Adige continua ad esserci una certa tensione tra i due "mondi": se chiedessimo oggi, in questa sala, ad un campione di operatori sociali di elencare le principali accuse che farebbero ai giornalisti, ne verrebbe fuori un elenco abbastanza simile al resto d'Italia. Allo stesso modo, se chiedessimo ad alcuni di giornalisti di "difendersi" o di contrattaccare, i punti toccati sarebbero sostanzialmente gli stessi per tutti loro. Ho provato ad isolare dieci argomenti per ciascuna delle due parti. Per gli operatori sociali le cose che non vanno bene dei giornalisti potrebbero essere:
- banalizzazione;
- superficialità;
- semplificazione eccessiva;
- mancanza di rispetto per le persone;
- spettacolarizzazione;
- strumentalizzazione dei fenomeni (spesso in chiave emergenziale);
- uso strumentale delle storie personali;
- perpetuazione di luoghi comuni e vecchi stereotipi anche a fenomeni nuovi;
- ignoranza;
- scarsa volontà di documentarsi (pigrizia).

Ed ecco le possibili risposte dei giornalisti:
- mancanza di tempo e di spazio (anche nei titoli);
- difficoltà ad accedere alle fonti riguardanti il "sociale";
- difficoltà a rapportarsi con gli operatori sociali;
- esigenza di rendere le cose comunque comprensibili (da cui la semplificazione);
- esigenza di dare spazio a tutte le opinioni e le tendenze;
- condizionamenti del mercato;
- condizionamenti dei superiori (caporedattore, direttore, editore...);
- esigenza di esemplificare i fenomeni (con delle storie...);
- impossibilità di "mettere in discussione" alcune fonti (forze dell'Ordine, magistrati...);
- frustrazione, a volte, per il dover essere dei "tuttologi".

Come si vede gli argomenti contrapposti sono tanti, e talmente intrecciati da necessitare ancora un lungo confronto. Anche se questo confronto, da alcuni anni, sembra indubbiamente progredire, per alcuni con risultati positivi e per altri negativi.

Scendiamo allora nello specifico della relazione per vedere quali siano, dal nostro osservatorio e sulla base delle riflessioni maturate in questi anni, i problemi più gravi avvertiti oggi rispetto alla rappresentazione di alcune espressioni del disagio sociale. Anche qui toccherò una decina di queste espressioni, pur consapevole che per ciascuna di esse occorrerebbe un lungo discorso. Si tratta di persone ben individuabili, la cui trattazione è molto più frequente proprio nelle cronache locali, cioè in quegli ambiti del giornalismo dove non sempre la coscienza etica e la deontologia professionale sono adeguatamente sviluppate, ma dove, dall'altro lato, esiste una maggiore possibilità perché si attivi quel confronto sopra richiamato, in vista di un miglioramento della situazione (questo seminario ne è un esempio). Sono persone e fenomeni per i quali occorrono particolari "capacità di lettura, di comprensione e di descrizione" e nei confronti dei quali "si esige dal comunicatore una specie di sacralità" (Vinicio Albanesi, relazione introduttiva a "Redattore Sociale 1997).

Minori

I punti cardine della Carta di Treviso sono l'anonimato del minore sia in caso di reato che di suicidio, adozione, affidamento, violenze ecc. Eppure quanti stratagemmi si continuano ad usare nelle cronache per permettere al lettore - come in una caccia al tesoro - di individuarne l'identità? Vi sono ormai innumerevoli ritagli di giornale in cui, ipocritamente, vengono riportate solo le iniziali di un minore, oppure un "nome di fantasia", per poi pubblicare generalità dei genitori, scuola e classe frequentata, fotografia della casa...
Vi sono poi altre anomalie: una riguarda la leggerezza - a volte intollerabile - nel trattare problematiche difficilissime da comprendere in poco tempo. Classico è il caso degli allontanamenti del minore dai genitori, con le prese di posizione del giornale quasi sempre in favore di questi ultimi a scapito degli operatori sociali o della magistratura, di solito sulla base di dati sommari, contingenti, emozionali. Salvo poi manifestare la schizofrenia di criticare gli operatori nei casi in cui non era stato deciso l'allontanamento "prima che fosse troppo tardi".
Ma sarebbe da approfondire la rappresentazione complessiva del bambino-ragazzo che emerge dai mass media. Sembra che rappresentare la normalità sia faticosissimo, quasi impossibile: "Il bambino-ragazzo o è bello, sano, felice, oppure è maltrattato, emarginato, delinquente, dilaniato tra adulti contendenti. E in questi casi egli diviene protagonista emblematico. Sparisce il ragazzo reale, infelice e speranzoso, insicuro, amato troppo o poco..." (Luisanna Del Conte, presidente di tribunale dei minorenni, "Redattore Sociale" 1997).

Immigrati

A volte è piuttosto deprimente notare come persista l'incapacità da parte dei media di passare da un atteggiamento in cui si considera il fenomeno immigrazione come congiunturale, ad uno in cui lo si tratta come strutturale. Come sia mantenuta l'enfasi sugli sbarchi e la criminalità, come siano taciute le problematiche, ad esempio, degli immigrati di seconda generazione, come raramente si riesca a collocare l'immigrazione in una cornice mondiale.
Il giornalista congolese Jean Leonard Touadi ("Redattore Sociale" 1998) ha segnalato due aspetti che mi sembrano fondamentali. Il primo è il silenzio dell'immigrato, un silenzio che lo trasforma in uno spettro di cui si evocano solo i misfatti. Il secondo è l'incoscienza del giornalismo rispetto al ruolo chiave che esso potrebbe avere, e che spesso sconfina nella pura insofferenza rispetto al fenomeno. E' così che l'immigrato diventa solo un "problema", un'emergenza.
Touadi segnala poi alcune barriere per lo straniero nel nostro Paese. La prima è linguistica: l'immigrato fa spesso fatica ad esprimersi compiutamente; e noi spesso facciamo fatica a riconoscere in un tunisino o in un egiziano il portatore di parte di quei patrimoni storici e culturali che pure ammiriamo nei nostri viaggi turistici nei paesi dell'Africa. La seconda barriera è sociale: l'immigrato vive molte volte nei luoghi dell'esclusione, ed è come se non avesse possibilità di riscatto... La terza barriera è religiosa: il credo dell'immigrato è sempre violento, fondamentalista, mentre la nostra religione è tollerante, buona...
E' anche da queste barriere, alimentate dai media, che discende l'enfasi sulla criminalità (spesso contro l'evidenza dei dati, ma spesso questi non vengono neppure cercati), l'indulgenza artificiosa ai luoghi comuni (come nella foto - poi dimostratasi costruita - della bimba albanese con la sigaretta in bocca, pubblicata sulla prima pagina di un quotidiano nazionale), la leggerezza nell'etichettare i tratti etnici (un titolo di cronaca nera recitava "Lei bianca, lui nero", mentre dalla foto era chiaro come lui, marocchino, fosse quasi più bianco di lei, italiana), fino al razzismo vero e proprio (memorabile il titolo di un quotidiano locale: "Rissa, ucciso un uomo e un marocchino").

Malattie "sociali"

Così si possono definire quelle patologie che assumono - o a cui viene fatto assumere - una componente di "colpa" da parte di chi ne è affetto. Con l'Aids, ad esempio, si è assistito e si assiste quotidianamente alla stigmatizzazione estrema delle persone interessate (quante volte è stato usato il termine di "untore"), al non rispetto della riservatezza, all'apponimento dell'etichetta di "sieropositivo" a soggetti coinvolti in fatti di cronaca per i quali quella specifica è del tutto ininfluente (quanti pezzi hanno definito il giovane arrestato per spaccio o per un furto come "tossicodipendente, sieropositivo, pregiudicato...").

Per le malattie mentali ciò che solitamente prevale è la genericità e la ridicolizzazione (per esempio dire "schizofrenico", da un punto di vista clinico, non significa nulla, tante sono le forme che la schizofrenia può assumere). In ogni caso alle persone malate di mente viene quasi sempre negata una qualsiasi soggettività: semplicemente non sono portatrici di diritti, non sono degne di rispetto, e se la loro patologia si presta al facile umorismo, nessun freno basta per fermare l'incombente battuta greve.

Tossicodipendenze

Fino a poco tempo fa i tossicodipendenti erano le persone più visibili nelle cronache cittadine, oggi ormai superati dagli immigrati (spesso ugualmente coinvolti in fatti di droga). Anche al "tossico" si nega spesso lo status di "persona", con tutto quel che ne consegue. Anche qui l'etichetta di "tossicodipendente" viene apposta a prescindere dalle caratteristiche della storia (tipo di sostanze usate o sequestrate, età, contesto del fatto, carriera personale ecc.). La tendenza più frequente è alla decontestualizzazione dei singoli fatti, utilizzando quasi sempre come unica fonte delle notizie i comunicati o le confidenze delle forze dell'Ordine e dei magistrati. Si nota inoltre una scarsa cultura della materia, con l'utilizzo improprio di termini tecnici (overdose, crisi di astinenza...) e con la perpetuazione di dibattiti sterili (droghe leggere, legalizzazione) senza nulla aggiungere alla conoscenza del pubblico e con il solo risultato di offrire un teatrino extra ai protagonisti delle polemiche (di solito politici di opposte o identiche fazioni). Per non parlare di certi articoli sulle cosiddette "nuove droghe", infarciti a seconda dei casi di folclore, imprecisione, indulgenza, allarmismo.

 

Sono poi riscontrabili altri atteggiamenti del giornalismo, che diventano ugualmente importanti nella formazione dell'opinione pubblica: per esempio, la tendenza a santificare i "salvatori" dei tossicodipendenti, l'insistenza nella rappresentazione di zone malfamate della città "in mano ai drogati", miriadi di racconti relativi ai "tappeti di siringhe" trovati qua e là. L'insistenza nel trattare questi temi sempre in un certo modo evidentemente rafforza il messaggio che il problema sta altrove, che non riguarda noi "normali", e che comunque ci sono persone che se ne occupano.

Omosessuali

L'omosessualità non è naturalmente l'espressione di un disagio, tuttavia può diventare fonte di stigmatizzazione. Anche a causa del trattamento riservato alla "categoria" da parte dei media. La tendenza a classificare gli omosessuali come devianti, come "diversi", sembra rimasta più o meno ai livelli di venti anni fa, nonostante l'evoluzione dei costumi. Da qui passare al non rispetto della riservatezza di queste persone viene quasi di conseguenza. L'etichettamento, l'additamento surrettizio, la pubblicazione delle abitudini sessuali anche quando ininfluenti per la comprensione della notizia costituiscono senza dubbio la maggior parte dei casi di discriminazione riscontrati nelle cronache. Un corposo dossier dell'Arcigay, inviato al garante Rodotà pochi mesi dopo l'approvazione della legge sulla privacy, mostra con inequivocabile chiarezza l'uso eccessivo di locuzioni come "ambienti omosessuali", "delitto a sfondo omosessuale", "giro delle amicizie gay" ecc.

Prostituzione

Nel 1998 il caso della prostituta di Modena accusata di aver "infettato migliaia di clienti" ha mostrato con emblematicità quale sia l'atteggiamento di fondo nel trattare notizie relative a chi si prostituisce. Accanto alla mancanza assoluta di spirito critico rispetto all'iniziativa del magistrato che ne aveva diffuso le generalità, accanto al mancato rispetto della riservatezza, praticamente tutti i giornali nazionali hanno tenuto a rafforzare l'artificiosa divisione tra "loro" (le prostitute, i clienti, gli infettati) e "noi" (gli onesti e puri cittadini). Il "male", come sempre, sta fuori da noi, preferibilmente concentrato in una sola persona-simbolo, un essere indefinito che, ironia della sorte, in quel caso ha dovuto mostrarsi in televisione per riappropriarsi della sua identità.
Quanto alla prostituzione in generale, gli operatori elencano una serie impressionante di quelle accuse riportate all'inizio: tendenza a considerarlo come un fenomeno indistinto, superficialità, non conoscenza, corsa allo scoop, sufficienza e insofferenza a capire ecc. Di certo l'indulgenza a soffermarsi sulle storie più che sui dati e i processi è eclatante; così come la confusione tra i vari aspetti del fenomeno (tratta delle schiave, night club, appartamenti...) e delle risposte ad esso (associazioni e "comitati di cittadini").

Dipendenze

Il pochissimo spazio dedicato a fenomeni di dipendenza che riguardano decine di migliaia di cittadini salta all'occhio ancor prima del modo in cui essi vengono trattati.
Ad esempio, il gioco d'azzardo sembra essere confinato alle "retate di insospettabili" fatte da polizia o carabinieri presso le bische clandestine. Non è affatto considerato d'azzardo il gioco compulsivo di Stato come il gratta e vinci o il superenalotto: ma il normale impiegato che spende 200.000 lire a settimana per indovinare il fatidico "6" che cos'é, se non un giocatore d'azzardo?
Quanto alle indagini su disagi alimentari come l'anoressia e la bulimia, o sul consumo generalizzato di psicofarmaci, per fare due esempi attuali, siamo addirittura nel campo delle rarità giornalistiche; naturalmente sono ancora più rari i casi in cui tali argomenti vengono affrontati previo un dignitoso lavoro di documentazione invece che rimpannucciando quattro statistiche e pareri di psicologi.

Barboni e nuove povertà

Al di là di quanto detto per altre espressioni di disagio (tossicodipendenti, immigrati ecc.), colpisce qui la paura, la ritrosia nel confrontarsi con questi fenomeni. Il povero disturba, forse, il nostro cammino nel benessere; tanto più se, oltre ad essere povero, ha anche fatto la scelta "inspiegabile" di diventare barbone.

Carcere e criminalità

Si tratta di un campo pericoloso se affrontato solo nell'ottica di chi opera nel "sociale", in quanto rischia di enfatizzare i diritti dei criminali a scapito del diritto alla sicurezza dei cittadini. Cito dunque solo tre elementi legati alla rappresentazione giornalistica, senza entrare nel merito di discorsi che diventerebbero troppo complessi.
Il primo è la questione delle foto. Una norma del '41 vieta la pubblicazione di fotografie di persone arrestate a meno che ciò non sia obbligato da esigenze di sicurezza o di indagine. La realtà, del tutto diversa, è ogni giorno sotto i nostri occhi.
Il secondo riguarda l'abitudine di celebrare processi sui giornali, la frenesia di anticipare verdetti che, di solito (ma non sempre) assomigliano a quello vero solo per la direzione (nel caso di colpevolezza) e non certo per l'intensità della pena comminata.
Il terzo è legato al precedente e ha a che fare con il ricorso pressoché esclusivo - già segnalato sopra - alla fonte forze dell'Ordine e magistratura. Le ragioni della difesa, per quanto deboli, giocano sempre "in difesa" e spesso non vengono nemmeno diffuse (il più delle volte per scelta dei diretti interessati o dei loro avvocati).

Suicidi

In molte cronache su questi tristi episodi si legge la parola "mistero". Eppure, detto questo, ci si lancia puntualmente in interpretazioni sui "perché dell'insano gesto". Dissapori familiari? Difficoltà economiche? Un brutto voto? Un rimprovero? Per i suicidi, più che per tutto il resto, dovrebbe valere quell'esortazione - guardata invece come un attacco alla libertà di stampa - a tacere alcuni particolari; ad usare quel sentimento che sembra tanto contrastare con il "distacco" del giornalista: il sentimento della pietà; a evitare, se possibile, il ricorso all'"esperto"; a non pubblicare la fotografia; a usare titoli rispettosi, collocazioni in taglio basso...

La situazione, descritta volutamente a tinte forti, pone quantomeno una domanda a chi opera direttamente contro il disagio sociale: cosa si può fare?
Non è questa la sede per entrare nei dettagli, tuttavia una serie di suggerimenti mi sembra il caso di darla:
- sforzarsi di capire i meccanismi che regolano la produzione di informazioni: solo comprendendo come nasce una notizia, e perché viene trattata in un certo modo, si può sostenere un efficace contraddittorio con chi è addetto al giornalismo;
- attivare un'opera di interazione e di interdizione continua nei confronti dei media: telefonate, lettere, seminari come questo; e non solo per accusare, ma soprattutto per discutere;
- imparare a comunicare: un ufficio stampa non tutte le associazioni possono permetterselo, ma assumerne "l'ottica" è oggi divenuto irrinunciabile;
- sistematizzare e rendere fruibili le proprie conoscenze e le proprie esperienze: si tratta di dati, di idee, di opinioni, anche di storie se si vuole, ma gestite con oculatezza e con una strategia.

Infine due consigli-slogan finali:
1. Nei rapporti con i mezzi di informazione la priorità non è che si parli di "noi", ma di "loro" (cioè delle persone per le quali noi e i nostri gruppi operiamo).
2. Non fidarsi delle pagine ad hoc sul "sociale" e sul volontariato. In genere sono tranelli: ci regalano uno spazio recintato e molto ameno, ma da cui diventa difficile uscire e dire la nostra sul resto del giornale.


* Testo non rivisto dall'autore. Le qualifiche si riferiscono al momento del seminario.