I Redattore Sociale Trento 12 marzo 1999

Redattore Sociale

Interventi di direttori degli organi di informazione e responsabili di associazioni

Toni Cembran, Agostino Valentini, Pino De Cesare, Pierpaolo Patrizi, Paolo Ghezzi, Gianfranco Fata, Manuela De Maria

 

Toni Cembran, responsabile Ordine Regionale Giornalisti per il Trentino Alto Adige*

Buongiorno, ringrazio Fortin e Trasatti, ma in modo particolare Dante Clauser per quello che fa, dice e scrive. Rappresenta per noi un esempio, una fonte sociale ed intellettuale.
Io credo che per chi fa un uso professionale della parola - Fortin prima ha fatto un elenco brutale delle parole che escono nei giornali, nelle radio e nelle televisioni - dialoghi come questi siano fondamentali, perché senza un confronto delle idee si rischia di sentirsi sempre migliori dell'altro, il che quasi mai è vero. I giornalisti dialogano poco all'interno delle redazioni, perché i tempi di lavoro non consentono loro questi spazi, dialogano poco all'esterno con le altre realtà territoriali perché lì prevale la concorrenza sulle notizie. Il fatto forse più grave è che dialogano poco con il cittadino, con il lettore. La professione corre su ritmi impossibili ma l'informazione è un problema sempre più sociale per ciò che riguarda il collegamento tra il cittadino e lo Stato, fra la società civile e il giornalista che, come professionista dell'informazione, diventa il garante del legame fra la società civile e la legalità. Sempre più frequentemente si parla di società dell'informazione, volendo guardare ad un futuro ed anche ad un presente nel quale ogni momento della nostra vita quotidiana è determinato o condizionato dalle tecnologie. Direi che questa sorta di determinismo tecnologico crea un vuoto tra la società e il mondo dell'informazione: facciamo prima a dialogare con geografie, con paesi lontani piuttosto che con il vicino di casa. In questo scenario, rispetto al quale io credo ci sia la necessità di creare nuovi equilibri fra l'uomo e lo Stato, si muove il giornalista che incontra, oggi, sempre più difficoltà nell'interpretare il ruolo di garante nelle regole che, rispetto alla libertà di stampa e al dovere di informare, non solo la legge istitutiva ma che l'Ordine gli assegna e che gli riconoscono anche proprio la Cassazione e la Corte Costituzionale. Su questo scenario fa irruzione la privacy. Espongo solo alcune mie considerazioni, poi Vittorio Cristelli, che è consigliere nazionale dell'Ordine dei giornalisti, vi introdurrà meglio all'argomento.
La privacy è una rivendicazione costruita sulla vita di ciascuno di noi più che sulle norme, anche se poi è codificata in norme. I giornalisti si sono dovuti dotare di un codice sulla privacy che ha valore di legge, in quanto è un'indicazione che esce dalla legge Rodotà. Tale codice ha fissato una serie di situazioni ponendo dei divieti di cronaca e a fianco di essi delle deroghe. Ad esempio "no alle manette", e poi a fianco si legge la deroga "sì alle manette", se ciò contribuisce a mettere in luce un'ingiustizia sociale. Allora il giornalista si trova in mano questo strumento che costituisce un salto di qualità nella cultura dell'informazione, ma ciò moltiplica anche i problemi. Infatti il passaggio da un divieto generico ad una serie di divieti specificati spinge in là il confine a cui ci si deve fermare nel fare una notizia, perché ogni situazione richiede un'analisi specifica a cui il giornalista è chiamato. Il divieto generico a pubblicare nomi poneva un limite globale. Ora il giornalista decide in proprio: una notizia va data o no in base al valore sociale o all'interesse pubblico che essa riveste. Non è facile definire di volta in volta tali parametri. La Cassazione viene incontro al giornalista, però complica le cose. E' una sentenza di un anno fa: il diritto di cronaca prevale su di quello di privacy, a patto che la notizia sia vera, venga narrata con civiltà e risponda ad un interesse pubblico. Questo ci porta a riflettere sempre di più sulla parola, ad interpretarla facendo appello alla nostra cultura, alla nostra sensibilità. Io credo che se noi alla parola privacy daremo il senso di tolleranza, lo spirito di comprensione nei confronti del sociale, forse questa parola potrà diventare quella del terzo millennio.

Agostino Valentini, sacerdote, direttore settimanale diocesano "Vita Trentina"*

Angelo Panebianco ha scritto un editoriale sul Corriere della Sera che mi ha fatto molto pensare, perché invitava le gerarchie ecclesiastiche ad uscire allo scoperto e a dire quello che pensano sul problema degli immigrati, una delle tante realtà di cui si è parlato oggi. Credo sia incontestabile che preti, frati, suore, laici e cristiani siano spesso impegnati in questi settori della marginalità, e sono i fondatori per lo più di organismi che si occupano di questa realtà. Essi hanno preso ad esempio la parola di Gesù "che non sappia la mano destra quello che fa la sinistra". Questo è un po' una cosa che ci mette in crisi come divulgatori di notizie, perché ciò li rende molto reticenti a mettersi in mostra, ma a volte dovrebbero avere il coraggio di uscire, con i denti se necessario.
Questo intervento di Panebianco mi ha portato a riflettere su un dato spesso trascurato: lui chiedeva di far sapere cosa si pensava della questione immigrazione, che sembra una cosa enorme mentre va molto ridimensionata. Il cristiano, qualunque cosa faccia, ha un solo esempio da imitare e da non tradire: quello di Gesù Cristo, che ha cercato i poveri e gli ammalati, ha stigmatizzato l'arroganza del potere che voglia servirsi degli altri, ha perdonato i nemici, ha detto ad un povero disperato "Oggi sarai con me in paradiso" e potrei continuare con le citazioni. Chi ha degli strumenti ecclesiali, diocesani come il nostro, non può che mettersi su questa linea e non può nascondersi che ci sono problemi, difficoltà sociali e civili nel trattare di queste cose. Però credo che se c'è da peccare è meglio esagerare nel parlare, nel sostenere questa gente piuttosto che essere reticenti o nell'etichettarli. Non credo di dover presentare credenziali per quanto riguarda "Vita Trentina" in particolare, non da oggi ma da quando è nata, per l'attenzione che ha avuto a queste cose, alle persone, etc. Il nostro orgoglio è di aver sempre operato in questo senso, anche a costo di non essere sempre capiti dalla gente. Allora il mio auspicio è di trovare ascolto, prima di tutto dalla comunità cristiana, perché quando si parla e si scrive di queste cose spesso si suscita una certa irritazione. La gente cristiana o non cristiana dovrebbe aver più voglia di leggere ciò che fa pensare, ma invece i primi ad essere superficiali sono a volte i nostri lettori che quando trovano queste pagine le girano, le danno per scontate. Se ho un appello da fare, è non tanto agli operatori sociali, a loro dico "a volte abbiate il coraggio di far sapere alla mano destra ciò che fa la sinistra", ma ai lettori, agli ascoltatori io domando che abbiano voglia di sentire e di leggere queste cose. Spesso ho l'impressione che meno se ne parla, meno si disturba il manovratore e quindi si fa più bella figura.

Pino De Cesare, Usigrai - Unione Sindacato Giornalisti RAI*

Ieri sera mi ha telefonato Roberto Natale che è il segretario dell'USIGRAI, voleva essere presente a questa iniziativa ma purtroppo è bloccato a Roma e mi ha chiesto di portarvi il suo saluto. Questo il formale. L'informale, le cose che vorrei dirvi in pochi minuti con un linguaggio che ho imparato, se volete da Ciotti, da Albanesi, da Panizza... molto diretto e franco. La mia esperienza con il "redattore sociale" viene dal giurassico, viene da 5 anni fa; il rapporto tra giornalisti e il Cnca da quella Carta dei doveri del giornalista che ci eravamo dati a Fiesole nell'87. Erano cinque punti in cui si diceva una cosa che infastidiva il mondo del giornalismo ufficiale: si poneva il problema del rispetto dei soggetti deboli, oltre a porre il problema del rapporto tra informazione e pubblicità e altro ancora. In quegli anni, parlo di 12 anni fa, andare nelle redazioni a parlare dei soggetti deboli era considerato quasi un  moralismo da molti colleghi professionisti seri che, con molta autorevolezza, venivano a dirti "caro ragazzo non hai capito niente, è un'altra cosa". Oggi facciamo i conti: la stessa categoria di persone è ancora lì a fare lo stesso vestiario di informazione ripetuto da anni... forse bisognerebbe uscire da questo schema, fare un passo in avanti. Questi colleghi dell'establishment del giornalismo italiano sono ancora in sella e forse anche noi, come persone che discutono di queste cose da anni, abbiamo fatto degli errori. Sentivo citare Borrelli e Mentana nell'ultimo incontro di "redattore sociale" e penso al libretto uscito l'anno scorso su "redattore sociale". Nel libretto di due anni fa c'erano Michele Serra ed altri grandi nomi. Ecco, non è che abbiamo indugiato anche noi sulla spettacolarizzazione, come fanno i giornalisti per cercare la prima pagina? Dicevo che rispetto a 12 anni fa si sono fatti parecchi passi in avanti. C'è la legge sulla privacy, con i suoi limiti e risorse. Nella legge che poneva dei principi su cui si muovono tutti gli ordinamenti giuridici del mondo sviluppato, i giornalisti erano stati invitati a fare un codice di autoregolamentazione. Si è arrivati ad un codice che non è di autoregolamentazione: non è stato fatto molto bene, siamo stati bocciati. Se non lo fanno i giornalisti, nella loro autonomia, interviene il garante e diventa legge: quindi quello è un codice etico, non è un codice deontologico. Esso pone determinati principi, citavi per esempio le manette, e va ricordato come noi giornalisti giovani che nell'87 ponevamo il problema della tutela degli imputati, delle manette (decreto Craxi) rimane ancora un aspetto non ascoltato. Molto probabilmente oggi c'è un surplus di regole che nessuno rispetta, perché non c'è una cultura dell'informazione democratica che rispetti veramente i diritti della persona in quanto titolare di libertà e di diritti di cittadinanza. E questo sia esso soggetto debole o soggetto forte, perché poi le parti si scambiano assai velocemente in questa epoca. Io, ad esempio, l'anno scorso ho partecipato all'"Università della strada", quella di Ciotti di Torino, ad un seminario rivolto agli operatori sociali. Rispetto a questi ultimi, soltanto 10 anni fa mi sono trovato un po' spiazzato: noi facciamo questi ragionamenti che girano da anni, lì c'erano 30 giovani operatori che pagavano per fare questo master post lauream di formazione, ed erano completamente nudi rispetto alla cultura dell'informazione, di come si muove e si evolve tale macchina. Inoltre erano in qualche modo ignoranti del loro stesso territorio, cioè erano dei ragazzi che volevano far pesare anche le loro voci del volontariato, senza conoscere quali erano gli strumenti. 

Vorrei concludere con un apprezzamento su quest'iniziativa. Normalmente si faceva a Capodarco, che è molto lontano da quassù, dove noi avevamo cercato, anche con amici de "La strada-Der Weg", di fare qualcosa. Non siamo mai riusciti a decentrare, a fare questa iniziativa senza spettacolarizzarla a Capodarco. Realizzare tale decentramento sul territorio può servire ad una grande cultura dell'informazione che rimetta in circolo le potenzialità. Prima, ad esempio, qualcuno citava Maria Pia e il non rispetto dei suoi diritti. Non è vero che quassù sia tutto perfetto. In questi giorni, leggendo di Maria Pia, mi veniva in mente il caso di una ragazza tedesca, Unli, che è stata uccisa l'anno scorso a Chienes in Val Pusteria. Per lei è intervenuto anche l'Ordine in maniera forse morbida. In quel periodo ero in ferie. Quando sono tornato ho visto le colleghe giornaliste molto arrabbiate per come i colleghi avevano trattato quel caso, per come avevano violato i diritti di quella ragazza. Hanno fatto un documento di protesta, io l'ho firmato. Ci sono state molte bacchettate da parte dei colleghi di testate che avevano trattato quel caso in quel modo, nonostante l'intervento dell'Ordine, per dire ancora "I maestri del giornalismo siamo noi". C'è molto da fare anche dove sembra che tutto funzioni bene.

Pierpaolo Patrizi, direttore dell'Associazione IRIS Caritas di Bolzano - Direttore del LED  di Trento*

Salve, cercherò di essere breve parlando della mia esperienza a Bolzano e del rapporto con la stampa. Ho la fortuna di essere coinvolto in varie situazioni del sociale, anche come collaboratore un po' a Trento, un po' a Bolzano, anche con La Strada-Der Weg ed altre realtà. Volevo qui riportare quella che è un'esperienza ormai pluriennale di collaborazione.
Una premessa è questa: da una parte mi fa piacere sentire che chi viene da fuori rileva come la nostra realtà regionale sia migliore di altre. Dall'altra parte questo mi preoccupa: in effetti la mia esperienza è positiva con alcune testate, ma è faticosa con le testate che cercano di guadagnare quote di mercato. Ho una collaborazione continua con Il Segno, settimanale diocesano di lingua italiana di Bolzano, una presenza settimanale con la RFS Circuito Marconi, che è la radio diocesana anche di Bolzano; e poi delle collaborazioni saltuarie con Radio Tandem.
Questo per dire che cosa? E' un invito agli operatori sociali qui presenti a non rimanere su una posizione di contaminazione e di critica, ma a partecipare direttamente in quegli spazi, che non sono tanti, per dare voce a chi non ha voce. In particolare ho accettato uno spazio alla radio, si chiama "Iris Caritas" perché è stata anche uno dei luoghi in cui i ragazzi hanno partecipato senza essere usati come merce di scambio più o meno politico: hanno parlato loro, e noi con loro. Allora, dicevo, questa è un'esperienza limitata che però funziona.
Da questo punto di vista c'è un'altra cosa che volevo dire ai giornalisti: è una realtà complessa, è vero, ci sono delle problematiche, ad esempio sulla privacy. E' complesso, però credo che se voi giornalisti, specialmente quelli con compiti di spettacolarità, non tolleraste più questa spettacolarizzazione volgare... Ecco, io ho scritto non so quante lettere quando, nei tempi in cui l'Aids andava di moda, veniva sbattuto il mostro in prima pagina con un assoluto non rispetto di nomi e di famiglie. Non fatelo fare questo. Inoltre vi può essere una ricchezza ed uno scambio quando l'informazione sociale non nasce da un'esigenza immediata di impostare qualcosa che non ha storia, ma viene considerata l'occasione di fare anche, come diceva il sindaco di Trento, una pedagogia per le nostre città. Concludo con questo augurio, grazie.

Paolo Ghezzi, direttore del quotidiano "L'Adige" di Trento*

Buongiorno, grazie dell'invito. Scusate ma ho sentito solo la seconda parte: l'intervento di Trasatti. Mi è sembrato opportuno anche distribuire questa Guida ai giornalisti.
Trasatti diceva che i giornalisti devono anche spiegare "cosa"... Quindi non sono cittadini qualsiasi che possano permettersi di essere generici e sbrigativi nel lavoro che fanno. Sono assolutamente d'accordo, e credo che facciamo tutti i giorni degli errori. A differenza di altre categorie, come i burocrati, gli avvocati, i giudici, i nostri errori sono assolutamente visibili e operativi. Perciò ogni giorno facciamo del male a delle persone, anche se in altri momenti facciamo anche del bene. Essere consapevoli di questo è il primo dovere etico di un giornalista che si consideri votato ad una professione, non solo per incrementare quote di mercato, che è un dovere anche etico, quando ci si assume un incarico professionale per un'azienda che deve stare sul mercato. Però c'è un'altra parte di etica che riguarda il giornalista come persona, come operatore dell'informazione. Certo, il giornalista deve spiegare, però prima deve capire in quanto è difficile spiegare senza capire; per capire ci vogliono doti naturali, però serve soprattutto uno studio, una preparazione specifica. Qui tocco un tasto dolente. Io 22 anni fa sono stato fortunato perché sono stato preso dalla prima Scuola di giornalismo presente in Italia, quella della regione Lombardia a Milano; nel frattempo le scuole si sono moltiplicate, anche se sono sempre troppo poche. In Italia quella del giornalista è una delle poche professioni che non richiedono un corso di studi specifico, ma solo un esame di Stato, che può essere fatto dopo un periodo di praticantato di un paio d'anni all'interno dei giornali. Tale periodo può iniziare in qualsiasi momento. Quando un editore assume un giornalista per farlo diventare tale, basta che abbia la maturità superiore. E' come se un ingegnere diventasse ingegnere perché una grande ditta della Fiat lo assume con la maturità scientifica, o diploma dell'ITI, gli fa fare un periodo di praticantato per poi mandarlo all'esame di Stato e dirgli: ora tu puoi fare l'ingegnere. Oltretutto è un reclutamento affidato agli editori, ed è una cosa molto strana che accade solo in Italia, dove credo che una parte minoritaria come il 5% dei giornalisti abbia fatto una scuola di giornalismo. Non mitizzo la scuola, però neanche deve esserci un mito che per essere giornalista basta stare sulla strada, consumare le scarpe, imparare dai vecchi giornalisti, respirare l'aria di redazione. Senza una previa preparazione, ed è per questo che questi momenti e la Guida sono importanti, succede che un ragazzo di 18 anni con una qualsiasi maturità superiore viene inserito in un giornale. Segue un periodo di praticantato che dovrebbe essere anche di formazione, ma il 99% è pratica che consiste nel portare immediatamente la notizia o coprire il buco qualsiasi esso sia. E allora si vedono aberrazioni rilevabili tutti i giorni e che facciamo anche noi. Il problema è che quando siamo dentro ad un circuito di concorrenza, di paura dei buchi reciproci, etc. allora anche i giovani, che dovrebbero essere formati ad avere una coscienza etica prima ancora che produttiva di notizie qualsiasi esse siano, vengono mandati allo sbaraglio. Qui vorrei sottolineare che per fare cronaca politica, economica, sindacale sembra ci voglia una certa preparazione, mentre per fare la cronaca nera e quella cittadina normale - la quale poi incide sulla vita di queste persone deboli oppure dette soggetti a rischio - non viene richiesta alcuna preparazione, sembra che tutto sia spontaneità. Si va sul posto, si registrano le prime dichiarazioni fatte dai protagonisti della vicenda, le si scrivono e così via. Questo è molto pericoloso.
Un'altra cosa: un mio collega diceva che le leggi e i codici di autoregolamentazione che ci arrivano dal Parlamento servono per essere violati. Ahimè, io sono convinto che l'80% circa dei giornalisti alla fine la pensino così. E' un guaio, in quanto siamo una minoranza a pensare che c'è una priorità della notizia che ad un certo punto si deve scontrare con il codice. Questo ce lo dobbiamo dare noi, perché se ce lo danno gli altri ci saranno casi continui di violazione, in quanto le leggi alla fine vengono violate, spesso dalle stesse forze dell'Ordine; ad esempio, è stato prima citato il caso delle foto in cui, dietro ai giornalisti, ci sta la violazione delle forze dell'Ordine. Volevo dire che una formazione che non sia preceduta da un'adeguata preparazione comporta tutti questi pericoli. Per quanto riguarda i soggetti deboli vorrei ricordare che quando una persona diventa oggetto di informazione è comunque soggetto debole. E' evidente che ci sono gradazioni diverse di debolezza; ad esempio gli emarginati sono i più deboli al massimo grado, i bambini sono debolissimi, come pure le donne in certi frangenti (è stato ricordato il caso di Maria Pia). Però tutti sono deboli e averne consapevolezza ci porterebbe ad un modo diverso di approcciarsi alla realtà. Credo che la pagina sul volontariato di per sé non serva quanto una mentalità attenta a quello che succede. Certamente c'è spesso un cortocircuito tra mass-media e informazione nella cronaca nera che riguarda per esempio casi drammatici, in cui si va a violare la privacy della persona. Sono convinto che certe notizie siano emerse spontaneamente sul caso di Maria Pia in Puglia, ma sono anche convinto che magistrati e poliziotti abbiano parlato, come al solito, tantissimo con i giornalisti. Questo è un meccanismo perverso. C'è un bisogno reciproco di regolamentazione, anche da parte di chi detiene la fonte di informazione. Infine dalla legge risulta, se l'ho letta bene, che la privacy si applica alle persone viventi; credo che essa non chiarisca come funziona quando una persona è morta. Qui ci dobbiamo porre il problema di un diritto alla privacy che si estenda anche ai famigliari, ai superstiti. Oltretutto essa viene invocata spesso in modo abnorme; ci sono personaggi pubblici che mi telefonano furiosi e la invocano solo perché abbiamo scritto che, ad un'asta pubblica, hanno acquistato un albergo; si tratta di personaggi pubblici, con un ruolo pubblico e che partecipano ad un momento pubblico. Ecco allora che la privacy viene usata al contrario, per imbavagliare l'informazione. Viceversa, probabilmente, anche quando una vita non c'è più, tale legge si dovrebbe estendere a coloro che restano e soffrono, come ad esempio i famigliari di Maria Pia.

Gianfranco Fata, responsabile Sindacato Regionale dei Giornalisti*

Porto con entusiasmo i saluti del Sindacato Regionale dei Giornalisti e della Federazione Nazionale della Stampa di cui il sindacato fa parte.
Si è parlato dei giornalisti e di certi atteggiamenti. Una cosa che ci è stata ricordata da d. Clauser, il quale ci insegna molto anche dicendo che non ha niente da insegnare: vivendo vicino agli ultimi si impara l'umiltà e la modestia, atteggiamento che dovrebbe essere il primo comandamento del codice deontologico anche dei giornalisti. Questa assemblea ha già la sua funzione pedagogica nella misura in cui ci insegna tali cose e ci invita a riflettere sui problemi del disagio, delle difficoltà di vita di chi è prima di tutto persona. E' stato poi chiesto di non assumere atteggiamenti giudicanti. Io mi colloco tra quei giornalisti che hanno voluto la Carta di Treviso a protezione dei minori, tra coloro che sono riusciti a realizzare in alcune testate la Carta dei doveri dei giornalisti; doveri che guardano soprattutto alla tutele di legge... quindi a una funzione pedagogica del giornalismo. Io non sono d'accordo con Borrelli quando dice che il giornalismo non ha tale funzione: ce l'ha ed è una prova, per esempio, il riferire di questa assemblea, che mi sembra un fatto grosso, portando in molta evidenza un fatto come questo, in quanto oggi le rappresentanze del disagio e dell'emarginazione hanno trovato un'espressione così visibile. Sono state fatte una serie di accuse e portati elementi di difesa sulla situazione dell'informazione. Io penso che c'è molto di vero e fondato in tutto il capitolo delle accuse: riportando con modestia ed umiltà alla gente le notizie di cui ho parlato prima, queste cose perderebbero la loro rilevanza negativa. Quindi io mi auguro che, domani sugli organi di stampa, e già da oggi su quelli dell'emittenza radiotelevisiva, questo Convegno abbia la rilevanza che merita, superando le necessità della cronaca nera, che per me è stata sempre una vera ossessione; riconosco in questo un mio limite. La capacità critica non dovrebbe trasformarsi in ossessione, ma quando si vede che la cronaca nera ha il privilegio su fatti importantissimi, mi cadono le braccia.
Vorrei che questo Convegno avesse la sua rilevanza non solo per un giorno, come l'8 marzo in cui si parla bene delle donne, ma che diventasse un elemento del dover essere quotidiano del buon giornalista.
Ed in questo senso io vi auguro buon lavoro!  

Manuela De Maria, Ordine Regionale Assistenti Sociali del Trentino Alto Adige*

 Io sono qui in quanto assistente sociale perché, anche se noi non siamo presenti nell'elenco delle 30 associazioni, però ci sembrava importante almeno come Ordine Regionale Assistenti Sociali - e questo a nome del consiglio e della presidente - far presente che ci siamo, vogliamo essere partecipi e aprire i canali di comunicazione. Vogliamo anche ricordare, in quanto spesso non si sa, che la tutela della nostra professione è racchiusa nel nostro codice deontologico, che è stato finalmente approvato e recepito anche a livello regionale. Il rispetto del codice per noi è vincolante. L'articolo 23 del nostro codice cita testualmente: "nei rapporti con la stampa e con gli altri organi di informazione, l'assistente sociale oltre che ispirarsi a criteri di equilibrio e di misura nel rilasciare dichiarazioni e interviste, è tenuto al rispetto della riservatezza del segreto professionale". E' questo un articolo in cui appare chiara l'impossibilità di intervenire ad esporre il nostro operato a tutela dei nostri utenti. Davanti a scorrette informazioni l'assistente sociale, proprio per la responsabilità a cui è tenuta, non può ribadire o chiarire i termini del problema rappresentato. Essa stessa può quindi diventare oggetto di giudizio o di valutazione, pur senza poter difendere il proprio lavoro e la propria professionalità. Noi chiediamo e vogliamo proporre ai giornalisti, che sono professionisti anch'essi, il giusto uso dell'informazione ottenuta, lasciando nel dubbio quando non è possibile avere delle informazioni chiare e dirette dei soggetti coinvolti. A questo aggiungiamo che, proprio perché siamo assistenti sociali e come Ordine c'è anche questo aspetto da salvaguardare, spesso non siamo l'unica agenzia coinvolta nei casi che sono oggetto di notizie. Siamo i più facilmente attaccabili, ma quasi mai siamo soggetto decisionale, anche se così sembra. A nostro sfavore, è vero che noi non sappiamo usare i mezzi di informazione, anche per fare cultura del nostro lavoro e della nostra professione, e per affrontare il tema della corretta informazione. Questo sembrerebbe dovuto prevalentemente ad una incapacità e non conoscenza delle strategie di comunicazione con i media. Ambito questo non previsto nel nostro corso di formazione. Vedete come sono agitata io...questo la dice lunga, anche solo del parlare in pubblico...Perciò questo è un problema che stiamo cercando di affrontare ed è complesso.

Vorremmo fare inoltre una puntualizzazione su quanto abbiamo potuto vedere leggendo la stampa locale: spesso la definizione stessa dei ruoli professionali non è chiara; si confonde l'assistente sociale con l'educatore, con lo psicologo, con l'assistente domiciliare...ecco, questo ci sembra una cosa che va chiarita a tutela di tutte le professioni e non solo della nostra, anche perché la confusione non dà sicuramente una corretta informazione.
Queste sono state le nostre riflessioni come Consiglio dell'Ordine. Vorremmo far presente, proprio per avviare un canale di comunicazione, che all'interno dell'Ordine professionale si è costituita una commissione di lavoro per riflettere sui rapporti tra la stampa e il servizio sociale. Questa Commissione mi ha demandata per dare la possibilità di aprire questi canali di comunicazione.
Vi ringrazio.

Fernanda Scarmagnan, giornalista free lance di Bolzano*

Ecco io mio siedo perché mi tremano le gambe... La premessa ...Io sono una Free lancer di Bolzano, e sono la direttrice di me stessa perché, a parte la giovane età, essendo donna dovrei essere un genio per diventare un direttore, probabilmente... cosa che non è richiesta ai direttori uomini...eh, chiudo subito la polemica.
Dicevo che c'è la grossa fetta di Free lancer, un gruppo che sta aumentando sempre di più per i problemi dell'editoria e che, secondo me, va ben tenuto in considerazione quando si parla di giornalismo in generale. Io ho un magma di cose da dire, per cui sarò poco dialettica e andrò con l'accetta, perché ho solo 5 minuti. Esporrò delle mie riflessioni. Ho sentito dire che bisogna comprendere i meccanismi dell'informazione. Siccome è bello ragionare per utopie, secondo me, bisogna cambiare i meccanismi dell'informazione perché va ridefinita cosa significa notizia. Infatti se andiamo avanti con l'idea di notizia quale quella che normalmente viene usata dai giornali, difficilmente riusciremo a fare un tipo di informazione sociale, in quanto generalmente in un giornale fa notizia ciò che è polemica e che porta ad un grave perturbamento della vita comune. Quindi il lavoro quotidiano faticoso non fa notizia, la fa solo quando accade un fatto grave. Questo è il primo discorso: quello che fa notizia, probabilmente, va cambiato come idea; deve riuscire a far notizia anche il lavoro quotidiano, la fatica, etc. Qui siamo però nell'ambito dell'utopia, del discorso "è nato prima l'uovo o la gallina?"; perciò noi scriviamo questo perché l'editore ce lo richiede, e il lettore lo vuole. E qui si fa un discorso di informazione come modalità di formazione: occorre chiederci se siamo noi a formare i lettori in un certo modo, o noi rispondiamo ai loro bisogni. E anche qui lascio un grande punto interrogativo aperto.
Un'altra cosa che mi ha colpito è stato il discorso sulla scuola di giornalismo. E' vero che i giornalisti vanno formati, ma è anche vero che ora i giovani approdano alla professione già formati, in quanto è rarissimo che un giovane di 18 anni cominci a lavorare in un giornale... Io parlo della mia esperienza locale poi non so. E' raro perché quasi sempre si arriva al giornale mentre si sta facendo l'università o quando si è già laureati, proprio per una serie di meccanismi. Chi arriva al giornale prima, di solito o si occupa di sport o è parente di qualcuno che lavora in un giornale. Detto questo voglio rilevare che c'è una preparazione, a mio avviso per l'esperienza che ho, maggiore da parte dei giovani giornalisti rispetto ad un tempo. Evidentemente c'è comunque chi insegna male, perché se i giovani non sono ben formati e apprendono il mestiere in redazione, vuol dire che qualcuno li sta preparando male.
C'è poi il discorso dei ritmi, dei tempi, del buco, della concorrenza fra le testate; in questo caso specifico sul discorso dei soggetti deboli. E' vero, quando il giornale o una televisione parla di loro, parla di noi, siamo sempre un soggetto debole... Io mi riferisco soprattutto al giornale perché lì ho maggiore esperienza. Ho fatto per 10 anni la giornalista prima in nero, a proposito di regole e al rispetto della legalità all'interno delle redazioni, prima lavorando sottopagata e non assunta regolarmente e poi, invece, come redattrice professionista: questo giusto per dire la mia competenza. Dicevo, io ho potuto assistere molte volte a situazioni in cui la persona di un determinato ceto sociale ha telefonato e la notizia non è andata sul giornale. Posso testimoniare che, in altrettanti casi, soggetti più deboli con storie più drammatiche alle spalle hanno telefonato chiedendo protezione e, nonostante l'accordo dei direttori delle testate, poi è successo che la notizia è uscita sui giornali. Si, siamo deboli ma fino ad un certo punto. Vorrei concludere con un'altra provocazione, di cui ha parlato un altro collega dell'USIGRAI, in relazione al caso di Ulli e delle redattrici che erano molto offese per come se ne era parlato: io mi chiedo se quella del giornalista non sia una professione "maschia". In tal senso faccio un discorso di genere, inserendo nel maschio determinate caratteristiche e nella femmina altre. Chiedo scusa se non siete d'accordo però una sensibilità femminile, che non è dell'uomo e che non è della donna, forse questo tipo di sensibilità all'interno della nostra professione farebbe bene. Dopo di che vorrei dire: ci sono le persone e il sistema dell'informazione. Attenzione a non confonderle, perché ci sono persone disponibili ad accogliere qualsiasi notizia, che appunto i volontari che lavorano nel settore danno, e però poi c'è un sistema dell'informazione che di sicuro schiaccia. Lì bisogna probabilmente operare. Io sono in contatto con la rete di azione sociale di Bolzano, in quanto si sta pensando ad una formazione di operatori per far loro conoscere i meccanismi e renderli capaci di intervenire. La cosa peggiore è infatti, "la notizia io non la so dare e non la do" mentre bisogna darla.

Dario Fortin

Ringrazio Fernanda Scarmagnan. Era l'ultimo intervento prenotato dalle testate. Essendo lei l'unica collaboratrice della RAI rimasta (i suoi colleghi hanno dovuto lasciarci per un'altra notizia) noi abbiamo pensato di dare spazio a Fernanda.
Ci sarà la possibilità di altri interventi, dopo la relazione di Vittorio Cristelli, che ci riporta a livelli più profondi. Per chi non lo conosce è il giornalista che è stato direttore di Vita Trentina per anni, ma è anche filosofo, insegnante a educatori e assistenti sociali sul tema dell'etica e della deontologia professionale. Quindi a noi parlerà della questione della privacy e dell'etica.


* Testo non rivisto dall'autore. Le qualifiche si riferiscono al momento del seminario.