Un nuovo senso di precarietà sembra pervadere le società occidentali di inizio millennio. Soprattutto nei luoghi, come il "ricco" nordest italiano, in cui apparenti certezze e agiatezza economica hanno per lungo tempo dominato l'immaginario e la concretezza quotidiana.
La precarietà assume infinite variazioni, ma si alimenta anche con un numero limitato di "messaggi forti" veicolati periodicamente dai mezzi d'informazione. Spesso la precarietà si trasforma in paura, anche perché questi messaggi si intrecciano con la vita personale di ciascuno e possono essere elaborati con insufficiente spirito critico.
In fasi storiche caratterizzate da paure crescenti, il ruolo dell'informazione diventa così ancor più delicato e cruciale che in periodi "normali". E' un ruolo che chiama il mondo del giornalismo a un surplus di attenzione e di tensione etica, ma che chiama anche la società civile organizzata e impegnata sulle problematiche del disagio sociale a un protagonismo maggiore nei confronti dei media.
Nel rispetto e nella legittimazione delle rispettive funzioni, giornalisti e operatori sociali sono chiamati a una alleanza inedita, affinché certi fenomeni, dinamiche e comportamenti generatori di potenziali paure, incertezze, intolleranze e chiusure siano rappresentati con rigore. L'aderenza, la correttezza, la precisione dei resoconti, il "coinvolgimento professionale" sono in questi casi fondamentali per informare la società in un periodo storico di inquietudine. E per fare sì che essa sia più aperta alla solidarietà, nonostante l'umana inclinazione a reagire con la paura a un futuro dove ci saranno meno certezze.