III Seminario Redattore Sociale 8-10 Novembre 1996

Periferie umane

Dibattito - Terzo Settore: prima il pane?

Conduce Vinicio Albanesi

 

Don Vinicio Albanesi - sacerdote, presidente  C.N.C.A. e della Comunità di Capodarco**

Introduzione

Ho seguito il dibattito con interesse, avendo a questo tavolo persone molto intelligenti, ma a questo punto del nostro convenire credo che sia necessario dare una sterzata. Ieri pomeriggio e stamattina siamo partiti da questa ipotesi: sul sociale tutti sostengono di poter dire qualcosa. Noi che siamo operatori del sociale diciamo che questo non è vero, perché la non conoscenza o l'ignoranza, per dirla più esplicitamente, può essere grande. Tra questa ignoranza c'è anche quella di chi fa l'operatore della comunicazione. Nelle altre edizioni avevamo proiettato una serie di strafalcioni, ma di quelli forti e grossi, di titoli, sommari, occhielli, spalle, per cui da questa ipotesi abbiamo detto: forniamo degli strumenti di maggiore conoscenza; la premessa è che noi abbiamo fiducia nell'informazione: se siamo arrivati alla terza edizione di questo seminario significa che vi investiamo, e inoltre che noi stessi abbiamo bisogno di apprendere. Se c'è un problema di contenuti, c'è anche un problema di comunicazione di cui noi siamo le vittime o comunque le persone inadeguate: quindi l'intersse è fuori discussione. Qualcuno ha detto: "ah, ma ci avete invitati per darci bacchettate". Questa durezza va interpretata in termini positivi, altrimenti si rompe l'equilibrio della fiducia reciproca e questa non è nostra intenzione. Però, dopo queste due sessioni appena trascorse, ci hanno fatto notare che voi, operatori della comunicazione, avete altri problemi. Ad esempio, un bambino si è impiccato: la notizia la dobbiamo dare o no? Con il caporedattore, con il capopagina, con il direttore come ci comportiamo? C'è una discussione da fare, come la apriamo, con chi la apriamo, che cosa coinvolge? E' l'altra faccia di questo dialogo. Avendo un tavolo di persone intelligenti mi assumo la responsabilità, prima di continuare con gli interventi programmati sul non profit, di invertire la rotta chiedendovi di dirci quali sono i vostri problemi: non a me che sono un operatore del sociale, ma pubblicamente, così i relatori prenderanno spunto da questi problemi e daranno il loro contributo. Così attiviamo una dinamica relazionale maggiore.

Oreste Lo Pomo - Inviato della Rai di Potenza**

Riprendo la parola perché sono stato tra quelli ha portato a questa inversione di rotta, che mi sembra fosse naturale. Stamattina ho fatto un intervento, non dalla parte dei giornalisti, anche se sono un giornalista, ma una riflessione di doppia valenza. Da un lato ho cercato di capire quali sono le ragioni, molte volte giuste, che spesso portano la stampa ad essere considerata un po' colpevole di una serie di problemi, dall'altro ho cercato anche di porre l'attenzione su una serie di problemi legati alla nostra condizione di giornalisti, cercando di evitare generalizzazioni. A mio avviso esiste una differenza tra informazione considerata come massa di notizie, come realtà che spesso ci travolge, e gli operatori dell'informazione con la loro, seppure piccola o umile, sensibilità, che cercano di avvicinarsi ai problemi e alle tematiche sociali. Dovremmo tentare un percorso comune - al di là di una serie di giuste osservazioni sulla nostra professione, sul pressappochismo che spesso ci contraddistingue - per tentare di portare fuori dei linguaggi, uscendo da quelli diversificati. (...) C'è, secondo me, un desiderio individuale di salvezza da parte dei giornalisti, ma c'è anche questa macchina dell'informazione che porta al desk - anche gli stessi colleghi delle agenzie - porta a non guardare più in faccia le persone. Non c'è più il giornalismo d'inchiesta come una volta, non hai la possibilità di guardare ai fatti, e questa non è una difesa di categoria, ma è evidentemente l'esigenza di un percorso comune con gli operatori del sociale.

Nanni Vella - Agenzia ANSA**

Abbiamo più volte lamentato il problema - anche la rivista Aspe fa il resoconto degli "orrori di stampa" - dei titoli che sono fatti male, delle notizie sparate per quanto riguarda il sociale che non corrispondono a quello che noi, giornalisti interessati e operatori del sociale, vorremmo vedere sui giornali. Dato che Gad Lerner ha avuto un'esperienza televisiva, è stato soprattutto nella direzione giornalistica di un grande quotidiano e adesso ha ripreso a fare l'inviato, mi piacerebbe chiedergli se ci può raccontare brevemente come funziona il percorso per cui dal lancio dell'agenzia si arriva al tavolo del redattore o del giornalista, cioè come si sceglie la notizia, si sceglie l'ampliamento e si arriva al titolo. Siamo interessati a capire come si fa, per esempio, dallo sfogo di una mamma - che è la responsabile dell'assistenza alle famiglie con malati psichiatrici - ad una giornalista del TG5, ad arrivare a un titolo, ed ai titoli di stampa del giorno dopo, ad un dibattito sull'eutanasia dei malati di mente.

Fulvio Mazza - Gazzetta del Sud**

La carta di Treviso, quella che tutela i minori ed è stata scritta dall'Ordine dei giornalisti, credo che l'abbiamo letta più o meno tutti, ma sappiamo che è largamente inapplicata. Che bisogna fare? Il problema delle vittime delle violenze: sappiamo tutti che non bisogna dire il nome, non bisogna dare riferimenti, ma nella pratica, nove volte su dieci, questo avviene. Che dobbiamo fare? E questi sono dati già formalmente, normativamente conquistati: figuriamoci per altri dati che invece sono inapplicati, che ancora bisogna conquistare. Il problema dei suicidi. Il suicidio è una notizia, fuori di dubbio, ma credo che sarebbe opportuno che si decidesse per un'autoregolamentazione, cioè che si decidesse di non darli, perché sappiamo che i suicidi sono a catena. Quindi, fino a che punto deve prevalere il diritto di cronaca sul diritto alla vita dell'eventuale suicidato, che non andrebbe a suicidarsi se non andassimo a pubblicare la notizia? Le informazioni di garanzia: non mi soffermo perché sappiamo tutti che l'informazione di garanzia non è una sentenza passata in giudicato, ma sappiamo che nell'immaginario collettivo non è proprio una sentenza passata in giudicato, ma quasi. Il problema dei testimoni: abbiamo visto tutti le ragazze che accusavano Merola, indipendentemente dal fatto che sia colpevole o no, che venivano assediate dai giornalisti prima di andare in Tribunale e quando uscivano. La ragazza, che non era nemmeno autrice della denuncia, ma era una testimone chiamata coattivamente a testimoniare, andava sulle prime pagine, nei telegiornali con tanto di intervista coatta, per una violenza subita. Quindi subiva una doppia violenza. Il problema della riparazione giornalistica delle notizie sbagliate ai sensi della legge sulla stampa: in teoria esiste, ma nella pratica no. E' un altro diritto che già c'è, ma che invece non viene rispettato. La riparazione giudiziale agli arresti sbagliati, alle condanne sbagliate: anziché chiedere 100 milioni per l'ingiustizia subita, una cosa a costo gratis o quasi potrebbe essere che lo Stato o il Ministero della Giustizia faccia pubblicare un modulo o due moduli su un qualsiasi giornale, dove chiede scusa al Burlando, al Mazza, all'Albanesi per l'arresto. Al di là del discorso della legge sulla stampa, è il principio che conta: probabilmente questi due o quattro moduli darebbero una buona soddisfazione alla persona ingiustamente incarcerata e accusata. Perché dov'è che la persona, il cittadino comune subisce l'onta dell'essere arrestato? La subisce col vicino di casa, col parente, con l'amico, e conservando il giornale potrebbe dire: "Guarda, il ministro, il presidente della Repubblica mi hanno chiesto scusa". Credo che sarebbe efficace.

Jacopo Onnis - RAI, sede di Cagliari**

Sono d'accordo con le obiezioni e i suggerimenti che venivano formulati dalla presidenza: parlare del sociale richiede specializzazioni precise, competenze e approfondimenti. Mi pare che i titoli che ieri Franco Prina indicava sulla lavagna fossero già un atto d'accusa o comunque un rilievo critico senza possibilità d'appello. E se non c'è ordine nelle parole che usiamo, se abbiamo difficoltà a trovare sinonimi è già segno di mancanza di chiarezza interna, di approfondimento, di mancanza di voler capire le cose. C'è un rischio enorme: quello di cadere nell'episodicità. Se continuiamo a ripetere, dopo trent'anni, "il tunnel della droga" vuol dire che c'è pigrizia intellettuale o incapacità di approfondire i problemi. Ricordo a Cagliari un dibattito al quale ha partecipato Vinicio Albanesi: parlando degli equivoci delle parole aveva detto che solidarietà certe volte finisce per essere negazione dei diritti. Con solidarietà, con questa parola magica, pretendiamo di risolvere tutta una serie di problemi attinenti al disagio sociale, alla sofferenza. Don Mazzi una volta aveva detto una frase felice: la solidarietà finisce per essere il Guttalax dei cattolici, lo pronunciamo una volta e poi la nostra coscienza è sgombra. Penso che la capacità di approfondire, di prepararsi, di essere consapevoli dei temi che affrontiamo sia anche il miglior deterrente nei confronti delle difficoltà e dei problemi all'interno delle redazioni. Un giornalista capace e preparato può anche contrastare le spinte mercantili o le pressioni che possono venire dall'interno. Un'altra cosa importante è la capacità di collegare le cose con quello che ci sta sotto: ad esempio il problema della merce-bambino dietro la pedofilia, di cui oggi si parla tanto. Bisogna aver il coraggio di dire che la merce che si offre, dietro la prostituzione, è la merce-bambino. L'iniziativa del Cnca è meritoria, ma vorrei che fosse stata assunta, in prima persona, ufficialmente e con cognizione di causa dalla Federazione nazionale della stampa o dall'Ordine dei giornalisti. Questo è il segno di una carenza grave nei confronti di un'iniziativa che ritengo estremamente utile e capace di arricchirmi.

Claudia Origlia - Giornale Radio RAI**

Sono d'accordo con le difficoltà illustrate dai colleghi, perché le conosciamo tutti, però ci sono alcune cose che si possono aggiungere. Mi sono occupata per molti anni dei problemi dell'immigrazione e uno dei miei più grandi desideri sarebbe veder sparire l'immigrazione, e con l'immigrazione altri temi simili, dalle pagine della cronaca nera, dove normalmente si trova. Credo che sia necessario fare una battaglia dentro i nostri giornali per far uscire dalla cronaca nera un campo enorme di notizie, a favore di un'informazione che chiamerei strutturale, nel senso di un'informazione continua, che serva a far capire, a far conoscere, che diventi strumento di conoscenza di fenomeni, di mondi che non possono essere conosciuti solo tramite un'informazione puntuale e legata a momenti di estrema crisi ed emergenza. Non mi soffermerò sui titoli, però ne voglio citare uno, è un titolo piccolo, ma era molto significativo, diceva così: "Presi due spacciatori, lui nigeriano, lei impiegata". Chiedo a voi se nigeriano e impiegata siano due categorie omologabili e vorrei sapere anche come si fa, visto che si sa come si diventa impiegata, a diventare nigeriano. Ovviamente il problema del linguaggio non è un problema semplice, ma non va risolto con le marmellate. Per parlare solo un attimo dell'immagine - dato che abbiamo parlato molto di carta stampata e pochissimo di televisione - sappiamo tutti che la forza delle immagini è enorme. Noi attraverso le immagini - torno a riferirmi al campo che conosco, che è quello dell'immigrazione - possiamo proporre una serie di contenuti che possono far pensare in determinati modi. Come l'immagine edulcorata, che risponde alla superficialità e alla mancanza di conoscenza dei fenomeni è sicuramente da scartare, a mio avviso bisogna cominciare a scartare l'immagine che i francesi chiamano miserabilista, in cui l'immigrato è sempre triste, sempre solo, sfigato e povero, e non ha altro da offrire. Perché se noi uscissimo da questi ghetti che noi stessi costruiamo, riusciremmo a far vedere il mondo che c'è dietro, ed è quello che interessa, al di là del fatto puntuale, per fare comunicazione seria.

Nicola Alfiero - Corrispondente del "Roma", giornale di Napoli**

Vorrei porre l'accento sull'altra parte, cioè sui fruitori della notizia. Secondo me in questo dibattito sono poco presenti. Chi deve insegnare loro a leggere quello che noi ci sforziamo di far capire? Come vanno lette alcune cose? Come vanno spiegate alcune cose? Pongo questi problemi prima di tutto a me stesso. Quando ci sforziamo di farle capire, dopo andiamo a controllare che cosa di quello che abbiamo prodotto è stato realmente recepito? Sono preoccupato, perché credo che spesso le cose che andiamo a produrre lasciano il tempo che trovano.

Sergio Fantini - Giornalista in pensione di "Avvenire d'Italia", "Avvenire", il "Resto del Carlino"**

Dal lungo dibattito mi pare che sia emerso soprattutto il problema della nostra professionalità. Le bacchettate certamente non mi fanno paura: ho cominciato a fare il giornalista nel 1961, di bacchettate ne ho prese molte e di bacchettate ne prenderemo certamente ancora parecchie, ma fanno bene, soprattutto devono servire a noi, come singoli e come categoria, per discutere dei nostri problemi. La nostra categoria sta discutendo, in un momento particolarmente importante, sia il nostro sindacato, sia l'Ordine, con molte difficoltà e forse anche con troppa lentezza. Dobbiamo insistere maggiormente e chiedere collaborazione non soltanto all'interno della categoria, ma nella società. E' stato chiesto chi è il referente del giornalista. Secondo molti di noi è il lettore, ma evidentemente anche l'editore; quindi, accanto a un discorso di carattere deontologico, c'è anche il discorso del mercato. Qui potrebbe parlare un economista. La struttura dei giornali naturalmente sappiamo qual è, in Italia, e quali dipendenze ha dal punto di vista economico. Poi c'è il rapporto all'interno delle redazioni, perché è vero che il giornale dovrebbe essere un prodotto di carattere collettivo, con la partecipazione della redazione in rapporto con il direttore, ma molto spesso il direttore ha un rapporto personale con l'editore, più che con la redazione. Quindi anche la figura del direttore va messa in discussione. Questo dialogo all'interno delle redazioni purtroppo c'è sempre meno, perché evidentemente nessuno può nascondersi che il direttore, come uomo di fiducia dell'editore, ha certamente tanti condizionamenti diversi dai problemi che hanno i giornalisti. Ho parlato di professionalità perché mi pare che qui ci sono anche parecchi allievi di scuole, che si domandano effettivamente quale sarà il futuro della nostra categoria e anche molti di noi sono preoccupati per il domani del giornalista, perché effettivamente non sappiamo che cosa succederà di questa figura. Credo che gli interlocutori, Gad Lerner in particolare, potranno esprimere la loro opinione su questo argomento.

Giuseppe Gattino - IFG Bologna**

Volevo fare una domanda a Gad Lerner, relativa al modo in cui si trattano i temi di cui si è parlato, in particolare di un'esperienza che ha vissuto in prima persona alla "Stampa" di Torino e cioè il caso San Salvario. Volevo chiedergli se non crede che il modo in cui la Stampa ha trattato questa vicenda non rientri proprio negli schemi che presentava la collega della Rai, cioè esclusivamente sotto il profilo dell'ordine pubblico. Volevo sapere come si costruisce la notizia - anche ricollegandomi alla domanda che aveva fatto il collega dell'Ansa - e se delle volte non ci sia un certo eccesso da parte dei giornali locali nell'affrontare queste vicende, con una responsabilità nel creare l'allarme sociale relativo, ad esempio, all'immigrazione. Al professor Ascoli volevo solo chiedere se poteva fornire un intervento pertinente al tema che era nel volantino, cioè il Terzo settore, e i punti fondamentali dell'attuale dibattito sulla questione economica legata alle imprese sociali.

Marranghino - RAI, sede di Potenza**

Io "faccio le immagini", come diceva la collega Origlia. Volevo partire dai discorsi sulla pazzia, sulla legge Basaglia e sul fatto che c'è una scadenza, il 31 dicembre. La scadenza è immediata, le strutture mancano. In questo Paese nessuno ne sta parlando. Ho avuto modo di notare che spesso il disagio sociale è diventato pazzia, mentre è solo disagio sociale. Quindi come ovviare a questo e come parlare in modo corretto del disagio?

Adriana Masotti - Radio Vaticana**

A proposito di chi ci ascolta, del pubblico, di chi ci legge, credo che non dobbiamo sottovalutare gli ascoltatori o i lettori ed avere molto rispetto per loro. Questo può voler dire anche, mi fermo su un particolare, informare le persone su come vanno a finire certe vicende. Molte volte scoppiano dei casi, degli scandali, se ne parla per due giorni interni e poi tutto finisce e non si sa più come è andata la cosa, se era vera, se non era vera, che risvolti e che conclusioni ci sono state e mi sembra che questo sia altamente scorretto, tanto più se la cosa non era vera, ma era soltanto una montatura. Faccio un esempio. Alcuni mesi fa era venuta fuori che la comunità somala in Italia compra i bambini e fa venire i bambini dalla Somalia in Italia per venderli, e quindi erano venute fuori le descrizioni dei bambini nelle cassapanche, nei bauli, che vengono trasportati con un pezzo di pane dentro, giusto per sopravvivere durante il viaggio. C'è stata una conferenza stampa della comunità che ha smentito clamorosamente, dicendo che questa era una cosa impossibile per loro, per la loro cultura, ma che ammettevano che si trattava di ricongiungimenti familiari irregolari, che loro erano comunque disposti anche a continuare, pur di riavere i propri figli con sé. Sono andata e poi ho fatto il mio pezzo raccontando quello che la comunità Somala diceva. Fidandomi, perché se avessi ascoltato la Questura o il Tribunale di Roma avrei detto un'altra cosa. Però poi mi sono dimenticata di questa faccenda; invece sarebbe stato più giusto tornare sull'argomento, ascoltare questo, quest'altro, sapere com'è finita. Era una montatura? Chi aveva ragione? Un altro esempio. Un anno fa, mi sembra, esplose lo scandalo dei bambini cinesi negli orfanotrofi. Al momento vennero fatte delle interviste all'eurodeputato sensibile, il Parlamento europeo fece delle dichiarazioni e prese dei provvedimenti, però poi hanno avuto effetto questi provvedimenti? Il Parlamento è andato avanti? Ci sono state delle conseguenze? Era vero tutto questo o no? Ecco, volevo raccomandarvi: incalziamo le persone.

Vincenzo Varagona - RAI, sede di Ancona**

Trasformo in domanda un passaggio dell'introduzione che avevo fatto ieri. E' sufficiente fare informazione, sperando ovviamente di farla bene, oppure è necessario anche farsi carico delle responsabilità di un certo tipo di informazioni? I riferimenti erano a determinati aspetti dell'informazione sociale. Prima è stato citato il caso dei suicidi, ma in generale nella cronaca ci sono i casi di spaccio di droga, gli stupri o gli incendi boschivi; insomma, dagli esempi banali a quelli meno banali. Ieri Franco Prina diceva, in un passaggio molto interessante, che non sono tanto questi episodi che aumentano, quanto la sensibilità su questo genere di cose e quindi le denunce, però è statisticamente provato che l'informazione, su questi temi, aumenta l'effetto emulativo. I colleghi dicono: se dobbiamo anche farci carico degli effetti devastanti dell'informazione su quello che succede, chiudiamo le redazioni, perché da un lato ci licenziano se non diamo queste informazioni, dall'altro se dobbiamo cercare di farlo meglio di quanto facciamo adesso, facendoci carico di questi problemi, ci mettiamo il triplo o il quadruplo del tempo, e quindi vanno in onda metà telegiornali o escono metà pagine di giornali. Pongo questi problemi ai relatori.

Conclusione del dibattito**

Andrea Pancaldi

Per fare un brevissimo riassunto, da una parte avete fatto domande che si riferiscono alla pratica giornalistica - il tema dei linguaggi che è stato ricordato più volte, il tema della costruzione della notizia, il come fare lo stesso cronaca se non si può dare il nome, il cognome, l'indirizzo, o fare riferimenti alle persone, la carta di Treviso - dall'altra domande che fanno riferimento a questioni di carattere più generali, come il tema delle parole-contenitore. Veniva ricordata la parola "solidarietà": anche la parola "Terzo settore" è una di quelle che vengono usate come contenitori, dove bollono tantissime cose, spesso e volentieri anche in contraddizione l'una con l'altra. Poi il tema della collocazione delle notizie, che riflette la cultura che si ha delle varie tematiche del sociale e il tema riguardante la possibilità o meno di dare delle immagini positive della marginalità, senza cadere nell'eccesso opposto di parlare solo per categorie, di parlare dei vinti. Questo capita spesso per gli handicappati che sono, nell'informazione, o eroi o vinti e sono vittime di una sorta di "sindrome di Lavazza". C'è questo meccanismo del "più lo mandi giù, più ti tira su" che funziona sempre e spesse volte, quando si esce dalla categoria del vinto, si finisce poi per cadere nella categoria dell'eroe. Ci sono alcune domande sul Terzo settore. Mi inquieta che non ci sia nessuna domanda per Giulio Marcon, perché le tematiche relative alla pace, intesa non solo come assenza di guerra, ma anche come cultura, fanno da sfondo a tutte queste questioni. Perché questa parola è assente?

* (Nota): La tavola rotonda del sabato pomeriggio, dedicata al non profit italiano e moderata da Andrea Pancaldi, inizia con una serie di interventi liberi dei partecipanti sui rapporti tra informazione e fasce deboli. Un dibattito che riprende le suggestioni emerse nelle prime due sessioni del seminario.


**Testo non rivisto dall'autore. Le qualifiche si riferiscono al momento del seminario.