Il sociale in prima linea: la solitudine di chi si fa carico del disagio
CAPODARCO DI FERMO - Da una parte il mondo degli assistenti sociali, una professione sempre più a rischio, dall’altra quello dell’accoglienza di minori in difficoltà. Due realtà confinanti, di frontiera entrambe, alle prese con una quotidianità che parla di violenza, fisica e verbale, ma anche di criminalità organizzata, negligenze e carenze istituzionali.
A raccontare le storie sono stati questa mattina nel corso della XXIV edizione del seminario di formazione per giornalisti di Redattore sociale "Solitudini", il presidente dell’Ordine degli assistenti sociali, Gianmario Gazzi, e Fortuna D’Agostino che, insieme al marito Antonio dirige la casa famiglia la "Compagnia del Felicioni" a Trentola Ducenta (Caserta), legata alla Comunità di Capodarco.
Due mondi costretti a fare i conti con la solitudine. Il primo, quello degli assistenti sociali, costretto quotidianamente a sperimentare la solitudine comunicativa, la solitudine professionale, una solitudine multifattoriale (scarsità di risorse, precarizzazione contrattuale, disinteresse istituzionale...), una scarsa visibilità dei successi della professione. Il secondo, quello della comunità "la Compagnia dei Felicioni" di Fortunata d'Agostino, alle prese con la solitudine di chi si trova di fronte alle grandi problematiche dei minori accolti e quella di chi si sente osteggiato dalla stessa città in cui vive. Due mondi, un'unica fattispecie di solitudine: quella in cui vengono a trovarsi coloro che si prendono carico del disagio altrui.
Diversi i temi e le storie raccontate, a partire dal preoccupante fenomeno dell’aggressività nei confronti degli assistenti sociali in Italia, emerso chiaramente dalla ricerca promossa dall’Ordine lo scorso anno e che ha raccolto le esperienze di quasi 20 mila assistenti sociali sugli oltre 42 mila iscritti.
“Parliamo di un contesto ampio - ha sottolineato Gazzi - che esercita in vari ambiti delle istituzioni pubbliche e del terzo settore. Notoriamente ci occupiamo di giustizia sociale, per tutelare chi non è tutelato. È chiaro che questo pone gli assistenti sociali anche in una posizione scomoda, ci confrontiamo con minoranze che si sentono escluse e che, molto spesso, non sono al centro dell'agenda politica. Dobbiamo stare al loro fianco e rispondere di mandati istituzionali che mal sopportano che si venga a dire che ci si dimentica di qualcuno”. È in questo scenario che l’assistente sociale si sente sempre più solo. “Questa situazione vede anche una solitudine costante per la categoria, perchè gli scenari attuali parlano di un mondo in cui i diritti sono privatizzati, cioè è più facile darti dei soldi che darti una mano. Nel dibattito pubblico si parla poco di collettività e troppo di privato, il costante ritiro delle Istituzioni lascia sempre più solo chi si trova in prima linea sul territorio. Gli operatori sociali e sanitari sono l’epidermide delle istituzioni che si interfacciano con la cittadinanza”.
È proprio in virtù di questo ruolo così delicato che sui Servizi sociali si scarica la sfiducia e la rabbia dei cittadini nei confronti delle istituzioni. L’Ordine vuole però avere ben chiaro il termometro della situazione relativa alle aggressioni, grazie a indagini (a inizio 2019 sarà pubblicata una ricerca sul fenomeno divisa per regioni) e a una scheda, che sarà perfezionata entro la fine dell’anno, dove ciascun assistente sociale potrà denunciare violenze e aggressioni subite . “Gli ultimi dati ci raccontano un clima di odio che ribolle - ha spiegato Gazzi - per questo occorre investire nelle reti organizzative, non solo di prevenzione, ma nelle strutture di welfare nel paese. I numeri sono importanti. Ci dicono che la professione è diffusa, ma non è tutelata. Alla base di questo clima per Gazzi “c'è un meccanismo di aspettative troppo ampie, se c'è una cosa che ha dimostrato la ricerca – spiega - è che le aggressioni sono legate alle aspettative delle persone, chi non ha gli strumenti per capire che alcuni settori sono in difficoltà non si fa poi scrupoli ad innervosirsi ed usare violenza”.
Un cenno anche all'attualità: "Sono molto preoccupato dall'arrivo del Reddito di cittadinanza - ha spiegato Gazzi -. Ma non per la misura in sé, piuttosto per le aspettative che sono state generate, accompagnate da una campagna di informazione deficitaria. E noi siamo lì, in prima linea. Abbiamo già visto che che è successo col Rei: veniva gente negli uffici degli assistenti sociali e diceva: 'La tv ha detto che mi spetta il Reddito di inclusione e voi me lo dovete dare!'. Ci sono stati casi di aggressioni, di minacce. Adesso sono stati promessi 780 euro con il Reddito di cittadinanza, ma probabilmente a regime cifre e numeri non saranno quelli citati in questi mesi. Resta il fatto che in prima linea saremo sempre noi...".
Con un contesto altrettanto difficile deve fare i conti quotidianamente Fortuna D’Agostino, che da 16 anni dirige la struttura di accoglienza Comunità di Capodarco Teverola, in provincia di Caserta, comunità di tipo familiare per l’accoglienza di minori in difficoltà. Un’esperienza di vita comunitaria avviata, con un piccolo gruppo di soci e volontari, prima in un appartamento residenziale, poi, a partire dal 2002, in una villa confiscata alla camorra. A Redattore Sociale ha raccontato come nacque il tutto.
“Nel 2002 il Comune di Trentola Ducenta ci chiese di approntare un progetto con i minori per fare una scelta di vita ancor prima che professionale. La confisca era nei confronti di un collaboratore di giustizia e, inizialmente, ci trovammo un pò spiazzati. A noi però le sfide piacciono e andammo a vivere li con i nostri quattro figli e con sette ragazzi accolti”. Da quel momento per Fortuna e suo marito iniziò un’escalation di soprusi, violazioni di diritti e forzature burocratiche contro le quali non hanno esitato a combattere con tutte le loro forze. Per due volte la revoca del bene creò un clima di isolamento e paura nella comunità, le iniziative organizzate dalla Comunità, tra queste un dopo scuola popolare, vennero tutte disertate dalle istituzioni nonostante tutti su scala nazionale avessero riconosciuto nel “modello Caserta” un esempio di pratica virtuosa in materia di accoglienza di minori in difficoltà. Emblematiche sono due storie svelate da Fortuna: la prima, già raccontata da Redattore Sociale, è quella della bambina di dieci anni malata di Hiv e con un ritardo cognitivo che ben 35 comunità di accoglienza accreditate nel comune di Napoli non hanno voluto accogliere, spaventate da una malattia che ancora si crede “contagiosa”, avvolta da un’ignoranza cieca.
“Ci siamo subuto resi conto – ha affermato Fortuna D’Agostino - che era un grande problema culturale, e per trovare una soluzione abbiamo lavorato all'interno con i nostri educatori e con i nostri figli stessi. Per noi accogliere questa bambina e consentirgli di andare a scuola rappresentava una scelta pedagogica che ha come modello la famiglia e i principi di rifugio, cura e attenzione. La procura ha fatto il nostro nome ‘in extremis’, perché nessun’altra struttura si era resa disponibile”. Fortunata e il marito Antonio sapevano a cosa andavano incontro: “le carte mettevano paura: parlavano di una condizione sociale e medica spaventosa. Abbiamo chiesto ai nostri quattro figli (il primo adottato, gli altri tre ‘naturali’) di dirci un sì o un no, in tutta libertà. E hanno detto sì, tutti”. Il 17 giugno, quindi, la bambina è entrata in questa famiglia, che ha iniziato a prendersene cura e, naturalmente, a cercare una scuola per lei. Inizialmente nessun problema, poi, il 4 settembre, quel sì si è trasformato in un diniego: ufficialmente, non c’era posto per lei, troppi iscritti. Ma l’ufficio scolastico aveva anche concesso la sezione supplementare che il preside aveva chiesto, quindi è evidente che le ragioni del diniego fossero altre: la “paura irrazionale” del contagio, l’’ignoranza che avvolge questa malattia e che si abbatte con una violenza incredibile contro questa bambina. “Di fronte alla ‘soluzione’ dell’ufficio scolastico, mi sono sentita mortificata – riferisce Fortuna – sentivo quella proposta pesante, ingiusta”. A quel punto la decisione di rivolgersi con una lettera direttamente all’allora Ministro dell’Istruzione, Stefania Giannini. In seguito l'intervento del Ministro mise fine positivamente ad una delle storie più emblematiche che ben identifica la realtà nella quale Fortunata D’Agostino e la struttura da lei diretta sono costrette a vivere. Il segreto è stato non abbattersi nei momenti in cui la “solitudine” prese il sopravvento: “Con il senno di poi possiamo dire di essere stati coraggiosi ma anche un pò folli – ha concluso la D’Agostino -. Se ci fossimo sottomessi a certe logiche poi come avremmo spiegato ai nostri figli della necessità di stare sotto una legge che non è legge, noi abbiamo voluto sempre andare avanti a schiena dritta”.