L’Italia? Damilano: "Basta scaricare responsabilità, è tempo di doveri"
CAPODARCO DI FERMO – Qual è il futuro dell’Italia? Prende spunto da questa difficilissima domanda, posta dal presidente della Comunità di Capodarco don Vinicio Albanesi, l’incontro con il direttore de “L’Espresso” Marco Damilano, che ha chiuso la tre giorni del seminario di formazione per giornalisti di Redattore sociale. Un Damilano “amico” di Redattore Sociale e di Capodarco, come da lui evidenziato in apertura di intervento.
“Porto sempre con me la tessera NIP, “Not important person” – ha affermato, mostrando la tessera -. Ho partecipato per la prima volta all’edizione 1996 di Redattore sociale. Non mi sarei mai aspettato di tornare qui da direttore della testata per cui ho lavorato da anni. Ma io mi sono formato qui. E ho sempre frequentato questo luogo; vi sono tornato anche da relatore e da giornalista. Ricordo l’edizione di “Volo Radente”, e poi 3 anni fa. Porto nel mio nuovo ruolo questo bagaglio. In questo luogo di formazione si parla non tanto delle tecniche di comunicazione – che è l’ossessione delle scuole (giusto, perché è cambiato il giornalismo e la categoria dei giornalisti) – ma di persone”.
Qual è, dunque, l’orizzonte dell’Italia? “In questa ultima fase è diventato difficile da decifrare e raccontare – ha sottolineato Damilano -. Ho cercato di raccontare come questa domanda vada collocata in un discorso più generale. Mi è venuta l’immagine di Yalta, che era l’equilibrio internazionale stabilito dalle grandi potenze. Un mondo più semplice, di schieramenti, ma più soffocante. I conflitti nascevano quando qualcuno cercava di forzare quell’equilibrio. Allora arrivavano i carrarmati (a Est) e le stragi (vedi l’Italia). Era la democrazia che non poteva essere contenuta dentro gli schieramenti di Yalta. E questo provocava squilibri che quel sistema cercava di richiudere”.
“Oggi siamo invece in una situazione di disordine internazionale – ha continuato il direttore de L’Espresso -. Una nuova Yalta vedrebbe forse il leader cinese, Putin e Trump. E l’Italia in questa situazione non c’è: non c’è la politica, la cultura, non c’è il giornalismo e nemmeno la Chiesa. Anche il Papa non è più italiano da tanto (dal 1978). L’Italia si è ‘rimpicciolita’, così come la classe dirigente italiana. E così la prossima tornata elettorale assomiglia a una nebulosa. Ci si riscalda su qualcosa che appare irrisorio e inutile anche agli elettori”.
In questo quadro, dunque, non c’è un orizzonte. “Anche sul piano valoriale. Grandi narrazioni non ci sono. Non ci sono visioni complessive del mondo, e neanche progetti limitati ma in grado di essere efficaci. Polemiche quotidiane e spicciole che hanno suscitato in pezzi della cittadinanza un grande rancore. A proposito del giardino, tema di Redattore sociale di quest’anno, ragionavo sulle comunità che rinascono. Ma queste comunità sono aperte o chiuse? Permeabili? O i confini sono chiusi? Il 'giardino' è bello se aperto, se chiuso si trasforma invece nel suo contrario. Questa è purtroppo la stagione dei giardini chiusi! Ogni dibattito è utilizzato per blindare i propri pregiudizi piuttosto che per scoprire la diversità. In questo senso il futuro mi sembra complicato. Anche per il fatto che una nuova legge elettorale premia chi riuscirà a portare il maggior numero di persone sulle proprie posizioni. Ma quando manca il confronto viene a mancare la democrazia. E può essere anche divertente raccontare le castronerie e le mostruosità che si ascoltano, anche sui social, ma se ci si sofferma non ci si diverte più. Si capisce che manca il presupposto della democrazia...”.
Siamo dunque una civiltà in decadenza? Quanto detto sembra lasciar presagire scenari foschi… “Ovvio che la responsabilità principale è di chi guida, di chi dirige – ha continuato Damilano, rispondendo alla sollecitazione di don Vinicio Albanesi -. Ma a furia di delegare ci si è dimenticati che la responsabilità è qualcosa di più complessivo, generale. L’anno prossimo saranno 40 anni dell’omicidio di Aldo Moro, che negli anni ’70 ebbe a dire a proposito dei diritti: ‘Questo paese non si salverà se assieme alla stagione dei diritti non si aprirà la stagione dei doveri’. Invece, per Damilano, “questo è stato completamente dimenticato nel dibattito pubblico. Chi guida ha sempre detto 'vi darò più diritti'… L’Italia è il Paese in cui si è detto che era un diritto non pagare le tasse. Vero che la pressione fiscale è tra le più alte, e che quelle tasse sono spese molto male. Massima pressione fiscale, pessima gestione dei servizi. Questa fotografia consente di dire a qualcuno che le tasse non vanno pagate. Ma sul piano educativo e pedagogico da anni non c’è una leadership che parli di doveri! Perché c’è una stagione dei doveri da aprire: non è solo senso civico, è qualcosa di più profondo. Perché la Costituzione parla di diritti ma anche di ‘doveri inderogabili’”.
E i giornali? “Anche i giornali si sono sempre sentiti una controparte, non hanno mai ritenuto di avere una responsabilità. Invece hanno una responsabilità. Voglio affrontare questo tema nelle prossime settimane. E sarà difficile, perché è come accarezzare il cane o il gatto contropelo. Non c’è soggetto che non scarichi le responsabilità addosso a qualcun altro…”.
E’ stato affermato il discorso dei diritti. Ma perché questi diritti non vengono poi rispettati? Pensiamo ai migranti… “Il problema non sono i migranti ma è la povertà. Se lo straniero è ricco viene accolto bene. Pensiamo agli sceicchi… Ma se poi se sono poveri, parliamo di terroristi. Pensiamo a calciatori stranieri milionari. Il problema sono i diritti sociali e l’equilibrio generale di un Paese. Ho presentato pochi giorni fa un libro di storia di Andrea Giardina. La cosa importante che è emersa è che non è mai esistita una ‘razza italiana’. Anche l’impero romano si basava su molte cose ma non sulla razza. Poi arrivò l’imperatore Caracalla che nel 212 dopo Cristo decise di varare la cittadinanza romana universale. Altro che ius soli! Senza parlare gli italiano vittime di stragi negli ultimi 100 anni, perché loro erano i migranti! Ecco, basterebbe inserire nel dibattito pubblico questi elementi per dire qualcosa. Se parliamo di compatibilità economica, poi, posso dire che negli ultimi tempi ho visitato ospedali pubblici per motivi familiari. In queste corsie sia chi assiste che gli infermieri sono stranieri: non c’è più un italiano! E se queste persone sparissero rimarremmo noi con i nostri cari malati. Questo fa parte di una questione generale...”
Insomma, per Damilano c’è la necessità di parlare di interesse generale, di un equilibrio di un sistema. “Anche da un punto di vista egoistico c’è la risposta alla sfida che non può essere una risposta di chiusura! Ci pone questioni di integrazione, di inserimento, in tutte le pieghe della società. Occorre far emergere queste persone. Ma non c’è il punto di partenza: ho parlato di doveri. Occorre uno sguardo meno legato al nostro giardino, che diventa il nostro ristretto campo. Ma se chi ha la responsabilità di dare voce e interpretare l’interesse collettivo predica continuamente e asseconda (o stimola) solo lo sguardo particolaristico, allora si crea una società che nessuno sarà più in grado di governare. E’ un missile lanciato nel cuore della società. Ma a lanciare il missile sono le classi dirigenti!”.
E nell’Italia che fatica a decifrare il proprio futuro, in crisi di identità e in preda a chi soffia sul fuoco, alimentando quelle che Damilano ha elencato come le tante “solitudini”, si inserisce anche la crisi del welfare. Un welfare ormai inadeguato, costituito 30 anni fa. “Credo che dovremmo parlare di un ‘Welfare 0.0’ – ha provocato don Albanesi -. Occorre riflettere e capire cosa fanno i cosiddetti fragili: i poveri, i malati… Siamo tornati allo schema delle Leggi Finanziarie”.
“E’ il tema! – ha colto al volo il direttore de L’Espresso -. Quante volte abbiamo discusso del terzo settore, del non profit… Sul tema del welfare c’era in passato un grande calore, una grande battaglia ideale. Per dire che lo stato sociale, grande invenzione dell’Europa, una cosa buona l’aveva inventata: lo stato sociale, appunto. E’ l’Italia era all’avanguardia. Poi si è detto che era uno spreco. Alla fine degli anni ’90 si è delegato al terzo settore, come con la delocalizzazione. Lo Stato ha promesso sconti, detrazioni, ma ha detto al terzo settore ‘occupatevene voi’. Infine è arrivata una crisi economica devastante. Il ceto medio non si sente più al sicuro.”.
Una situazione ormai strutturale… “Si immagina in modo illusorio che la crisi finisca – ha concluso Damilano -. Ma la crisi coincide con un processo su scala mondiale irreversibile. Le nuove tecnologie rendono inutili molti posti di lavoro. Quindi difficoltà di trovare o di essere ricollocati sul mercato. Non è questione di recessione, l’equilibrio non torna più indietro. Nel frattempo le aziende si sono abituate a produrre senza le persone. Ecco perché il welfare 0.0 diventa la questione centrale della politica. E non riguarda più solo chi non ce la fa. Diventa il cuore della politica e del giornalismo. Tutte le città stanno diventando enormi periferie. Anche i centri storici sono abitati da persone in difficoltà: la politica e i servizi non riescono a starci dietro. Lo stato sociale deve tornare al centro, sennò non resta più niente. Il rancore di cui parla il Censis è uno stato d’animo, ma viene scatenato da qualcosa di molto concreto. O si continua a puntare sull’atomizzazione, sulla rabbia delle persone, offrendo un bersaglio su cui scaricarla, oppure si deve cercare di ricucire. Per rimettere insieme una società che altrimenti andrebbe a rotoli”.
Un cenno, nelle domande conclusive, anche all’informazione. Al suo ruolo e al suo stato. “Smontare il sistema di informazione? Il sistema di informazione è già smontato – ha evidenziato Damilano -. Non attacchiamo nemici che non esistono più. Anche l’Ansa attraversa una crisi. Quel sistema che anni va veniva presentato come un potere forte e inamovibile è già smontato. I giornali perdono lettori, redazioni al lumicino, la pubblicità non entra più… E dunque non esiste più nemmeno il condizionamento dell’inserzionista pubblicitario. Non è più il problema di porre un’informazione alternativa ma il problema è come far entrare l’informazione alternativa nel ‘mainstream’. Sennò diventa consolatorio”. (daiac)