Migranti e rifugiati, le sei regole per un’intervista corretta
ROMA – Capire chi si ha davanti, usare termini corretti, rassicurare, fermarsi se necessario, rendere la storia in maniera onesta, evitare la "pornografia" del dolore. Sono sei le regole per intervistare un rifugiato, secondo la Carta di Roma. Lo spiega in un articolo il giornalista Alessandro Lanni, che parte proprio dall’assenza delle parole dei migranti sui media, come sottolinea un rapporto dell’associazione realizzato insieme all’Osservatorio di Pavia. “Le voci dei migranti sono sostanzialmente assenti dalle narrazioni – si legge -. I protagonisti diretti sono oggetto di comunicazione, come massa indistinta, e solo raramente divengono soggetti di comunicazione”.
Lanni fa riferimento anche a uno studio realizzato dall’Ethical journalism network, secondo cui sono due le narrative fondamentali proposte da giornali e tv: i migranti come vittime e i numeri per la minaccia della cosiddetta “invasione”. Proprio per questo Carta di Roma ha individuato i punti da tenere presenti prima di affrontare un’intervista con un migrante, con un richiedente asilo o con un rifugiato, coadiuvata dal Dart center (un progetto della Columbia journalism school per la sensibilizzazione dei reporter nei confronti delle persone colpite da traumi), dal suo direttore Gavin Rees e dalla psicologa Gill Moreton.
Capire chi abbiamo davanti. “Intervistare un migrante significa anche conoscere con precisione chi è davvero il nostro interlocutore – sottolineano gli esperti - Per evitare semplificazioni e stereotipi, per prima cosa è necessario avere le idee chiare”. Chi scappa dalla leva militare in Eritrea non ha la stessa storia di un profugo siriano, come chi è in fuga dall’Iraq e chi parte da un villaggio nigeriano. Inoltre, bisogna tener presente lo status legale nel nostro paese e il percorso fatto.
Usare termini corretti. L’uso delle parole è fondamentale: “Espressioni come “migrante illegale” o “immigrato illegale”, per esempio sottolinea Human Rights Watch, sono degradanti e implicano che la persona che abbiamo davanti sia un criminale o quanto meno sia nel nostro paese in maniera illegittima – spiega Carta di Roma -. Lo stesso discorso vale per “clandestino” così presente ancora nei media italiani. Parlare di “illegalità” o “clandestinità” aiuta a diffondere l’idea che chi arriva in Italia con un gommone abbia meno diritti degli altri. Più in generale, usare termini come “invasione” vizia la discussione pubblica e la incanala in una polarizzazione dannosa (oltre a essere fattualmente falsa)”. E allora, perché non usare parole più neutre come migrante o più precise come richiedente asilo e rifugiato.
Rassicurare la persona che stiamo intervistando. Secondo un vademecum dell’Unchr irlandese la paura del “ritorno a casa”, di rappresaglie, della stereotipizzazione, una diffusa ostilità nell’opinione pubblica, rendono molti riluttanti a parlare con i giornalisti. Bisogna quindi essere chiari nelle nostre intenzioni; essere sensibili alle richieste di anonimato; informarsi sui paesi di origine.
Dare il giusto peso alla storia. “Definire il giusto peso delle parole del migrante o del rifugiato è un compito che spetta al giornalista che conduce l’intervista – scrive Lanni -. Esistono storie interessanti, che emozionano, singolari, ma che rappresentano poco o nulla la realtà di un paese, di una zona di guerra, di una traversata del Mediterraneo. E allora vale la pena chiedersi: a nome di chi parla la persona che stiamo intervistando? Chi o cosa rappresenta? Sé stesso, una comunità, oppure? Obiettivo: mettere nella giusta prospettiva l’intervista che stiamo conducendo.
Fermarsi, se necessario. Secondo Gillian Moreton, psicologa del Dart Center specializzata in adulti traumatizzati, a sottolineare come per il reporter debba esistere una linea di rispetto da non oltrepassare. “Riconoscere qualcuno sopraffatto da un’emozione o da un disturbo post-traumatico è fondamentale. Alcuni migranti possono perdersi o essere disorientati nel ricordo di un evento traumatico [come una traversata del Mediterraneo]. Se questo accade, è importante aiutare la persona a concentrarsi sulla sicurezza attuale”. Non toccarli – suggerisce Moreton – ma usare la voce e il loro nome per ricordarli dove e chi sono.
No alla “pornografia” del dolore. Infine, Gavin Rees, direttore del Dart Center, mette in guardia i giornalisti che cercano più il dolore e le emozioni che le storie di migranti e rifugiati. Quello che bisogna evitare è di trasformare il dolore nel prodotto stesso piuttosto che una chiave per comprendere la situazione. “A volte la fretta di chiudere l’articolo portano a usare cliché – dice Carta di Roma -, frasi fatte e banalizzazioni, ma “andare oltre l’immagine a effetto o la citazione è la sfida per il giornalista”. Raccontare prendendo fiato cosa sta succedendo.