Il dramma eritreo, dove "gli oppressi di ieri sono diventati i nuovi oppressori"

28nov2015

Al XXII seminario per giornalisti Redattore sociale lo scrittore Alessandro Leogrande ha parlato del suo libro “La Frontiera” (Feltrinelli). “Il 40% di chi sbarca in Italia è eritreo, e nessuno ne parla”. La situazione dalle parole di Sefaf Siid Negash, referente in Italia del Coordinamento Eritrea democratica

Il dramma eritreo, dove "gli oppressi di ieri sono diventati i nuovi oppressori"

Alessandro Leogrande “ha scelto di usare lo stile del giornalismo narrativo: la sua inchiesta è fatta con lo stile del romanzo. Per raccontare il viaggio bisogna farsi viaggiatori, scoprendo che ogni viaggio è diverso. E lui, nella sua ricerca, fornisce elenchi utili: le 28 regole del viaggio (l’ultima è quella non guardarsi mai indietro; come maneggiare la memoria e il dolore, ecc…). Prima di questo aveva scritto altri libri. Uno bellissimo sul caporalato, dal titolo ‘Uomini e caporlai’, ma questo lo ha superato”. Così il direttore dell’agenzia Redattore sociale, Stefano Trasatti, ha presentato alla platea del XXII seminario di formazione “Frontiere” il giornalista e scrittore Alessandro Leogrande, autore del libro “la frontiera” (Feltrinelli 2015). Una presenza interessante la sua, impreziosita e supportata dalla testimonianza di Sefaf Siid Negash, attivista e uno dei referenti del Coordinamento Eritrea democratica.
“Il libro è un tentativo di autobiografia non solo personale ma generazionale, di chi si è trovato a interagire in questi anni con ondate di profughi – ha attaccato Leogrande -. In questi anni in Italia si è sedimentato un sapere diffuso, un accumulo di storie che non siamo in grado di raccontare. E quindi da qui, probabilmente, un libro che riflettesse su tutto questo, sulle esperienze fatte. Quando l’ho scritto c’è stata la sensazione che le frontiere si sono messe in gioco negli ultimi anni. Ritengo che dietro i numeri bisogna recuperare le storie, ma non è una cosa facile”.

Una parte importante del libro riguarda l’Eritrea. Ed è sul Paese africano che si concentra gran parte del suo intervento. “Mi interessava raccontare le storie di chi era a bordo della nave della strage del 3 ottobre a Lampedusa. Con la strage qualcosa si è lacerato, anche solo per il fatto che è successo vicino a una delle spiagge più bella del mondo: l’isola dei conigli. La vicinanza con la costa ha contribuito a lacerare il velo che ricopre la maggior parte dei naufragi. E, nell’occasione, il giornalismo non ha riflettuto su un dato specifico: su 366 morti ufficiali di quella strage, 360 erano eritrei. Come eritrei sono coloro che arrivano sulla rotta del mediterraneo centrale, dalla Libia all’Italia”. Insomma, “c’è un’enorme questione eritrea, intrecciata con gli sbarchi, di cui noi parliamo pochissimo. Allora mi sono chiesto: da cosa scappano? Così ha cercato persone con cui parlare per capire, e mi sono reso conto che il silenzio non è solo un silenzio di dimenticanza mia ma anche altro: nel panorama editoriale c’erano solo 2 o 3 libri sul tema. Quello che non si sa è che gli eritrei scappano da una dittatura feroce”.
L’Eritrea contemporanea ci riguarda (il 40% di chi sbarca è eritreo) “perché è la nostra prima e più longeva colonia. E il nostro silenzio sul nostro passato è assordante – ha aggiunto -. Non è un caso che alcuni dei posti più sfasciati sono nostre ex colonie. Poi c’è il silenzio su quello che è successo quando non erano più nostre. Dalle storie emerge che quella attuale è una delle peggiori dittature di tipo staliniano della storia. Testimonianze di persone che hanno appoggiato un movimento di liberazione e hanno trovato una dittatura che epura i suoi stessi figli".
"Mi ha stupito che mi stessero raccontando una storia che era la mia storia. Mi aiutava a smontare la categoria del profugo vittima, che non ha una storia”. Racconti che si intrecciano, come quelle di migliaia di ragazzi che ogni settimana scappano dal servizio militare obbligatorio a tempo indeterminato. "Gente che scappa da uno stato totalmente militarizzato, con la tortura come pratica ordinaria. Qualcuno ha parlato di 'arcipelaghi gulag' per l’Eritrea. Che sorgono dove c’erano i campi di concentramento del colonialismo italiano!”. Ma non è solo la logistica a richiamare quel periodo. Un aneddoto spiega cosa lega passato e presente: “Parlando in inglese con un profugo – ricorda Leogrande – mi sono accorto del ricorre di alcune parole italiane come ‘ferro’, ‘otto’ o ‘Gesù Cristo’. Poi ho scoperto che si tratta dei nomi di alcune pratiche di tortura, rimaste lì dal tempo del colonialismo italiano!. E ho capito come gli oppressi di ieri sono diventati i nuovi oppressori”.
L’Eritrea contemporanea è questa. “E noi nel raccontare l’esodo non lo raccontiamo. Scavare nelle questioni, raccontare la storia dimenticata, questo è importante. C’è differenza tra chi scappa e chi combatte, poi ci sono le storie di frontiera da dover recuperare. E per tutti i legami detti, l’Eritrea è un caso studio, la principale questione di cui occuparci”. 

Siid, video-maker e attivista: “Il cambiamento si può fare, aiutateci”. “Io abito a Bologna, la capitale estera del fronte popolare di liberazione eritreo. La stessa nostra bandiera è stata concepita in Italia – afferma -. Ci sono stati 30 anni di guerra per avere un paese indipendente. Il popolo ha appoggiato la guerra con tutti i loro averi. Queste persone hanno creduto al 100% nella rivoluzione. Il regime attuale è stato scoperto piano piano. Le epurazioni sono iniziate dal 1994, ma inizialmente si pensava fossero veramente dei corrotti coloro che venivano messi in prigione. Nel 2001 la verità, dopo la guerra del 1997-98 con l’Etiopia: è in quel momento che ci siamo chiesti chi aveva deciso la guerra, attraverso una lettera pubblicata sui giornali indipendenti. Questo scatena una discussione pubblica, che finisce nella repressione: viene creato un tribunale speciale, vengono presi 15 ministri e membri della segreteria del partito e messi in prigione. Stessa cosa avviene per giornalisti e direttori, ma non ne parla nessuno. Abbiamo 10 mila prigionieri politici: insomma il regime ha tolto la maschera e mostrato il suo vero volto. Così la gente decide di uscire. Fuggire e traversare la linea di frontiera. Vorrei precisare: le persone non fuggono perché sono povere, ma fuggono perché vogliono respirare. Non c’è libertà di religione, di pensiero, di organizzarsi, non ci sono giornali indipendenti.  A 17 anni un ragazzo prepara la maturità in un campo militare. E questo obbliga la gente a uscire. Adesso anche minorenni e persone anziane: da 2 anni il servizio militare è ampliato fino a 60 anni. Quindi coloro che scappano sono anche nonni e nipoti! Perché i genitori stanno facendo il militare!”

Dal momento che arrivano in Europa, capiscono che anche qui sono controllati. “Le ripercussioni sui familiari sono possibili e sono grandi. In più, Europa e l’Italia ci remano contro. Chiediamo che non vengano dati soldi al regime eritreo: viene fatto sotto forma di cooperazione internazionale e, guarda caso, le aziende che hanno vinto sono tutte italiane. E’ un colonialismo di un altro tipo. Il nostro coordinamento per l’Eritrea democratica sta chiedendo che da questo momento in poi questo flusso di soldi cessi”.
Ma non è solo questo: il Paese africano viene considerato anche un alleato per affrontare la questione migratoria. Conclude Sefaf Siid Negash: “Come si fa chiedere all’Eritrea di essere partner nella gestione dei flussi migratori? In Africa c’è un regime eritreo che uccide: quello che potete fare è andare a scavare sull’Eritrea contemporanea e capire. Vogliamo mandare via questo regime in maniera democratica. Ci crediamo, come è success con Mandela in Sudafrica. Si può fare il cambiamento, ma aiutateci!”. (daiac)

Guarda il video dell'intervento di Alessandro Leogrande e Sefaf Siid Negash al Seminario "Frontiere"