In cerca di cultura fotografica: quando le immagini creano simboli e categorie

16ott2015

Presentato "Questione di immagine", progetto a cavallo fra giornalismo, indagine sociale e competenze video-fotografiche. Dallo stereotipo del venditore ambulante al piccolo siriano morto sulla spiaggia, un'analisi di come cambia la visione dell'immigrazione

ROMA - “Perché l'immagine di Aylan è diventata un'icona?”: la domanda ritorna in tutti gli interventi del seminario di formazione per giornalisti di Redattore Sociale, “Questione di immagine”, svoltosi oggi a Roma (Porta Futuro). È passato più di un mese dall'esplosione sui social network della fotografia del bambino siriano morto sulla spiaggia, che ha scosso l'opinione pubblica e posto molti interrogativi etici e professionali fra i giornalisti. La giornata di approfondimento è dedicata al “Racconto visivo del sociale sui media – Il caso dell'immigrazione”: “Il progetto è nato da un incontro per il progetto Parlare Civile, che indagava il significato delle parole nel linguaggio giornalistico. 

Ma c'è una grande ignoranza anche sulle foto, va creata una cultura fotografica che formi le persone su cosa c'è dietro, soprattutto per le immagini che vogliono raccontare la realtà, come vengono selezionati i materiali da pubblicare rispetto al contesto”, spiega Giulia Tornari, editor dell'agenzia Contrasto che  ha promosso il progetto “Zona”, gruppo di studio e ricerca sui linguaggi audiovisivi, e fotografici e ha coordinato il progetto “Questione d’immagine”. Questo vuole essere una piattaforma aperta di discussione, a cavallo fra giornalismo, ricerca sociale e produzione video-fotografici, per riflettere su un linguaggio sempre più presente, che può creare etichette e stereotipi su fenomeni sociali complessi. Le tematiche analizzate sono cinque (immigrazione, rom, genere, Aids, droghe), con un'ampia ricerca sui media, giornali di tiratura nazionale e servizio televisivo pubblico, la Rai. 

Claudio Cippitelli, sociologo, fondatore di Parsec, associazione di ricerca e intervento sociale, partner insieme a Zona e Redattore Sociale del progetto, ha curato la sezione riguardante le droghe: “A proposito di creazione dell'immaginario, siamo passati da volontari a delinquenti, grazie all'immagine simbolo che ritrae insieme cooperanti, politici e criminali – esordisce -. Nella nostra ricerca abbiamo trovato quasi solo immagini sciatte, poco creative, con le solite metafore esauste dell'albero con le siringhe, del cucchiaino con l'accendino, o le classiche copertine con donne nel solco di sesso, droga e rock'n roll. Dal 1975 i giornalisti sembrano acriticamente assoldati nella 'war on drugs'. L'unico contenuto davvero dirompente non è stato prodotto da giornalisti, ma dalla famiglia Cucchi: mostrando nel corpo martoriato di Stefano chi sono veramente le vittime della droga, mentre solitamente scompaiono le vite e le persone, sostituite da singoli episodi che fanno scandalo e creano lo stigma sociale”.

Andrea Pogliano, che insegna sociologia dei media all'università del Piemonte Orientale, approfondisce l'analisi sul tema dell'immigrazione. Spiega che nella narrazione ci sono cinque tipi di problemi: i temi, cioè la continua insistenza su storie criminali, l'allarme continuo, l'emergenza; il fatto di citare sempre la nzaionalità, anche quando non c'entra; la scarsità di fonti informative, per cui la Questura la fa da padrona, e, negli anni '90, i comitati di quartiere, che sembravano la voce unica delle città; e infine, l'uso scorretto dei numeri, che portano a parlare di invasione. “L'aspetto delle immagini, è stato indagato poco anche in ambito accademico, nonostante la loro capacità di costruire mondi immaginari, storie, di fare cultura”. Si creano delle icone, che cambiano con gli anni: “Negli anni '80 e '90 era quella del venditore ambulante nero, sintetizzato nel titolo di Famiglia Cristiana 'Il terzo mondo in mezzo a noi'. Era un'immagine facile, visibile. Poi ci fu 'l'invasione', con immagini di gruppo, ma sempre all'insegna del miserabilismo. Poi l'immagine dei migranti 'buoni', i sikh, considerati gruppo non problematico, e i 'nostri', nell'intimità delle case, le colf, le cosiddette badanti. Infine la mano nera su pomodoro rosso: icona di sintesi dello sfruttato, di fronte a cui si cambia registro del linguaggio perché indicano lo sfruttamento del mondo occidentale. Quelli bianchi non vanno bene per le foto”.

Pogliano spiega poi che la foto serve a dare corpo a una categoria, a stabilire dei confini narrativi, come quello fra richiedente asilo e migrante economico, “il profugo e il clandestino”. “Il marocchino viene ritratto nello svolgere attività, l'islamico solo durante la preghiera in abiti tradizionali. Persino nei femminicidi c'è un diverso trattamento: se il carnefice è autoctono viene ritratto poco, singolarmente, a rappresentare il delitto passionale, mentre le foto di donne sono in gruppo, scollate e in minigonna, rivelando lo sguardo maschile. Se il delitto vede come protagonista un migrante, questo è più fotografato, e protagonista diviene la cultura di provenienza”. Allo stesso modo “quelli che ce l'hanno fatta”, i protagonisti positivi, quelli che “hanno diritto al ritratto sorridente” sono sempre storie di singoli la cui integrazione dipende dalla forza di volontà contrapposta alla propria cultura, “il viaggio solitario dell'eroe sganciato dal contesto sociale”, spiega il sociologo, mostrando l'esemplare storia di Rachid, venditore ambulante a Torino che si è laureato in ingegneria, conteso persino dal Grande Fratello.

Raffaella Cosentino, autrice sia per Parlare Civile che per Questione di immagine, pone l'acento sulla responsabilità etica dei giornalisti nell'"andare, vedere e raccontare”, e come si passi dalle immagini all'immaginario, che crea distanza (come l'idea dell'invasione, delle immagini degli sbarchi senza un prima né un dopo, senza storie), o vicinanza, come la recente foto della coppia di superstiti siriani di un naufragio che si baciano, o come le immagini dei salvatori di vite (come nel documentario “La scelta di Katia”), che però portano ad identificarsi con i bianchi. “I morti sono i grandi assenti, ci sono solo i numeri, tranne nel caso di Aylan, “considerata una foto storica. Ma non avremmo mai pubblicato una foto di un bambino morto europeo”.

Di avviso parzialmente diverso è Francesca Paci, giornalista de La Stampa ed esperta di Medio Oriente, che sottolinea: “Il nostro lavoro può impattare sulla mentalità delle persone, e dobbiamo affrontarlo senza falsi moralismi: se una foto può servire ad aggiungere senso non sarei così severa. La Siria aveva un'problema di immagine' per cui l'opinione pubblica non si è accorta di 300 mila morti fino a quella foto”.

Perplessa di fronte a quella vicenda anche Tiziana Faraoni, photo editor del settimanale L’Espresso: “Vedo immagini altrettanto crude e devastanti ogni giorno, alcune non pubblicabili, ma non ho mai visto queste reazioni. Quando abbiamo messo in copertina i naufraghi aggrappati alla punta di una nave che affondava, non c'è stata nessuna reazione. E ancora mi chiedo perché”. Lancia infine una frecciata al mondo dei fotografi: “È vero che ci sono tanti stereotipi, ma è anche vero che molte foto sono tutte uguali”.

Valerio Cataldi, che da anni segue per il Tg2 e per passione personale i migranti nel Mediterraneo, mostra due video: uno ritrae le classiche immagini degli sbarchi, gli operatori con le tute anticontaminazione (che indicano pericolo) bianche, con in braccio bambini neri sorridenti, ritratti da dietro una transenna. Il secondo mostra un salvataggio in mare. Protocolli lasciati da parte, contatto fisico diretto, nessuna paura. I naufraghi vengono accolti da un cordiale “Welcome on board, how are you my friend” e una pacca sulla spalla, si inginocchiano a terra. In sala qualcuno si asciuga furtivamente gli occhi, qualcuno deglutisce. “Ecco, questo è il rapporto fra immagini e stato d'animo”, conclude Cataldi.

La seconda parte del seminario approfondisce il rapporto fra fotografia e cinema, “Le scelte che fanno la differenza”. “Spesso le cronache locali sono corredate da foto e termini non locali, associando il non luogo delle immagini a luoghi precisi, con un effetto disorientante e fuorviante, in cui l'impatto iconico iniziale si riflette sulle politiche locali”. Andrea Segre, noto per i suoi documentari di forte impatto emotivo, si addentra nell'effetto che le notizie e le icone globali hanno sulla vita quotidiana dei cittadini. L'ultima parte del Seminario di Redattore Sociale “Questione di immagine”, svoltosi oggi a Roma (Porta Futuro), 

“Vengo ora da un'esperienza molto calda: la 'giungla di Gorizia' – racconta Segre -. Quasi nessuno sa cos'è, pochi ne hanno parlato, ma lì è considerata la norma: i richiedenti asilo, soprattutto afgani, in attesa del proprio turno alla commissione di Gradisca, considerata favorevole perché ci sono mediatori culturali in lingua, vengono automaticamente mandati sul Lungoisonzo, in un bosco lungo la riva. Me lo ha raccontato Ali, scappato clandestinamente in senso contrario dalla Gran Bretagna quando lì hanno smesso di dare protezione ai rifugiati afgani”. Racconta che i vigili indicano semplicemente quel luogo, “non c'è più posto altrove”, e nessuno informa i profughi che nell'attesa possono pure andare via da Gorizia, dove nessuno affitta loro una casa. Così comprano una tenda e si piazzano sul fiume. Solo che con le forti piogge dei giorni scorsi, l'Isonzo si è alzato sempre più. “Parte dell'accampamento era sommerso, erano terrorizzati – racconta Segre – e la protezione civile non interveniva. Siamo andati in sei ad aiutare 150 persone, e li abbiamo portati in stazione in condizioni terribili, nell'indifferenza generale. Alla fine con varie pressioni abbiamo ottenuto che fossero sistemati nell'ex Cie di Gradisca, attiguo al Cara. Il giorno dopo, i giornali locali titolavano 'Altri 110 profughi nel Cara di Gradisca'”. 

Giulio Piscitelli ha realizzato reportage fotografici per cinque anni, attraversando 12 paesi e vincendo una borsa di studio della Magnum Foundation Emergency Fund. Mandato a seguire i fatti di Rosarno, ha continuato ad approfondire il tema da allora, battendo i percorsi dei migranti lungo il deserto, nei Balcani, a Melilla, nei campi profughi tunisini dopo le primavere arabe, facendo la traversata del Mediterraneo insieme ai profughi eritrei: “Ma non ho piacere di raccontare quell'esperienza, che mi ha segnato personalmente e professionalmente, non voglio che il mio lavoro sia ricordato per questo. Fu l'anno di svolta, di passaggio dal lavoro fotografico al progetto documentario, in una dimensione più ampia e narrativa”. Spiega però che l'interesse per questo tema è nato nella sua stessa città, Napoli, nei pressi della cui stazione, come in altre città, i migranti sono molto visibili. “Oggi vedo quanto avevo già visto in bianco e nero nelle lastre dell'archivio fotografico di Napoli, come molte persone del sud sono legato a queste storie. Non ho 'anticipato' questa tematica, ho solo 'fatto le pulci', volevo capire la realtà vicino a me, come a Castel Volturno, metafora della mancata gestione del fenomeno, con problemi di discriminazione, burocrazia, scolarizzazione, come quell'uomo con figli già grandi, in Italia da 20 anni, che non ha ancora la carta di identità”.

Segre spiega che Zalab, associazione per la produzione, distribuzione e promozione di documentari sociali e progetti culturali è nato nel 2006, con alcuni amici, per costruire la memoria degli eventi attraverso i protagonisti, e confrontarla con le scelte politiche di cui non si sanno le conseguenze. “Così è nato  Il sangue verde, sui fatti di Rosarno, o Mare chiuso, sulle conseguenze delle politiche dei respingimenti, o Limbo, sulle conseguenze dell'essere rinchiusi nei Cie per i familiari – racconta -. Ma abbiamo costruito contestualmente una 'rete di distribuzione civile', perché questi documentari siano distribuiti anche in luoghi non adatti, nei piccoli comuni, nelle scuole, nelle biblioteche, laddove succede un pandemonio se arrivano cinque profughi eritrei. Vogliamo agire sul locale, far conoscere e capire”.

La proiezione di un brano di “Come il peso dell'acqua”, prodotto dalla Rai e mandato in onda per il primo anniversario del naufragio del 3 ottobre, provoca in sala partecipazione, fino al punto di sentire gridolini di apprensione alla scena del 'lancio' di bambini da una barca all'altra. “Questa è la differenza fra vedere una storia raccontata dai protagonisti o leggere una tabella di numeri”, commenta il regista. “Gli 'smugglers', i trafficanti, i contrabbandieri, sono una conseguenza, non la causa. Esistono per l'impossibilità di viaggiare in modo legale, e pertanto sono illegali”commenta Piscitelli . “È proprio contraddittoria la frase 'lotta al traffico di esseri umani', visto che non c'è una via legale”, aggiunge Segre. “È scandaloso che i governi non si siano accorti di un fenomeno documentato già 30 anni fa – conclude il fotografo -. Come giornalisti abbiamo la necessità e il dovere di approfondire, fermarci, rendere umano. Per me è diventata una questione personale e politica”.(Elena Filicori)