"I discorsi d’odio non sono opinioni": parte la campagna contro l’hate speech
ROMA - Bloccare l’hate speech non è censura, ma un dovere professionale per chi fa informazione. È questo l’appello lanciato dalla campagna “#nohatespeech - giornalisti e lettori contro i discorsi d'odio” promossa dall’associazione Carta di Roma insieme alla European Federation of Journalists e Articolo 21, con l’adesione dell’Ordine dei Giornalisti, della Federazione nazionale della stampa italiana e dell’Usigrai e avviata con una raccolta firme su change.org. Un’iniziativa rivolta a giornalisti ed editori, ma non solo: per l’associazione si tratta di una “campagna di civiltà” che riguarda e coinvolge anche i lettori e gli ascoltatori. “Questa campagna è una goccia che scava la pietra – spiega Giovanni Maria Bellu, giornalista, presidente della Carta di Roma -. Spesso gli appelli hanno un obiettivo specifico, questo invece è più generale, è rivolto alle coscienze e alle responsabilità”.
Un appello che si rivolge in primo luogo a chi di comunicazione si occupa per professione. “Impedire la diffusione dell’odio non è solo un atto di responsabilità civile – spiega l’associazione -. È, per chi fa il giornalista, l’adempimento della regole-base della professione, quella che impone a tutti i giornalisti il dovere di restituire la verità sostanziale dei fatti”. Ai giornalisti, infatti, la campagna chiede “di non restare passivi di fronte ai discorsi d’odio” perché non sono “opinioni”.
“Trovando il loro fondamento nel razzismo, sono brutali falsificazioni della realtà – spiega l’associazione - e contraddicono non solo i principi basilari della convivenza civile, ma tutte le acquisizioni scientifiche. E’ un dovere professionale confutare le affermazioni razziste, chiarire ai lettori e agli ascoltatori la loro falsità intrinseca”. Una responsabilità, quella dei giornalisti, a cui non ci si può sottrarre, spiega Bellu. “Facciamo un esempio – continua -: se uno di noi si trovasse a raccogliere dichiarazioni su un’impresa di un navigatore solitario e ci venisse detto che l’impresa non può riuscire perché la terra è piatta, cosa dovrebbe fare un giornalista? La prende come opinione o gli dice che sta dicendo una sciocchezza perché la terra è semplicemente rotonda? Le affermazioni razziste non sono opinioni e non bisogna trattarle come tali”.
Responsabilità che sono ancor più grandi quando gli attori dell’hate speech sono gli stessi politici. “I giornalisti devono registrare il fatto che è stata fatta una determinata affermazione – spiega Bellu -, ma questo non significa che devono lasciare passivamente il microfono sotto la bocca di uno che dice spropositi senza contestarli. Noi assistiamo a delle uscite dei politici, con affermazioni di puro odio che passano alla stregua di opinioni e si diffonde tra le persone l’idea che gli insulti siano delle opinioni”.
Un tema, quello delle “opinioni”, che torna attuale con la vicenda che ha coinvolto Giorgia Meloni e l’Unar. Dopo una lettera di raccomandazioni inviata dall’Ufficio antidiscriminazione alla deputata in cui si chiedeva di usare “messaggi di diverso tenore” in tema di immigrazione, per via di alcune dichiarazioni scritte sul web, Meloni ha accusato il governo di “censura”, scatenando non poche polemiche.
Ma è proprio sulla scia di quest’avvenimento che sul web sono comparsi gli ultimi esempi di hate speech. A farne le spese, Cécile Kyenge, che in un articolo dell’8 settembre pubblicato dalle pagine online del Giornale difende l’operato dell’Unar denunciando anche le continue “minacce” e gli “insulti” ricevuti sul web. Insulti che non tardano ad arrivare anche in coda al suddetto articolo. “Negra ex clandestina”, “Beduina”, “quante banane al giorno ci costa?” “negra sempre più insopportabile”, “si sciacqui la bocca con l'acido muriatico”. Per Bellu, si tratta di un esempio eclatante su cui riflettere.
“Si tenta di far passare la lotta contro l’hate speech come una forma di censura – spiega -, mentre invece il concetto è semplice: se una persona dice che la Kyenge deve ‘bere acido muriatico’ come appare in fondo all’articolo del Giornale, chi parla di censura dovrebbe dimostrare che queste sono opinioni e libere manifestazioni del pensiero e non invece, come sono evidentemente, insulti”.
Hate speech che, secondo i dati dell’Unar, è in continuo aumento, spiega Bellu, soprattutto sui social network. “E’ una cosa di tutti i giorni – aggiunge -, lo incontriamo sempre e ovunque”. Ed è per questo che l’appello è rivolto anche ai lettori e chiede di “isolare chi esprime discorsi di odio – spiega l’associazione -, di non intavolare con loro alcun dialogo, nemmeno attraverso risposte indignate, e di evitare qualunque atto che possa anche parzialmente legittimarli come soggetti di un confronto”. Lettori invitati, inoltre, a “segnalare alle redazioni i discorsi d’odio perché possano essere cancellati e perché i loro autori vengano privati della possibilità di nuocere e, quando è previsto dall'ordinamento dello Stato, denunciati all'autorità giudiziaria”.
Contro l’hate speech, però, per Bellu serve una “regolamentazione a carattere europeo” che riguardi tutti i media. “Non è un caso che stiamo lanciando questa iniziativa con la Federazione europea dei giornalisti – spiega Bellu -. Deve essere così perché i messaggi online non hanno confini”. Nel testo dell’appello, intanto, ci sono già poche ma chiare indicazioni per lavorare ad una ipotesi di regolamentazione. Come quelle riguardanti le testate giornalistiche e i proprietari e gestori dei social network, a cui si chiede di “attuare delle procedure di moderazione che consentano di sopprimere tempestivamente i commenti d’odio e di bannare i loro autori” e di “adottare procedure semplificate per sostenere le redazioni giornalistiche e gli utenti nel segnalare i discorsi d'odio ed escludere i loro autori dalla comunità della rete”.
Un impegno, quello chiesto alle testate e agli editori, che però va oltre le questioni tecniche. “E’ vero che c’è una difficoltà tecnica ad intervenire con adeguata tempestività sui commenti – spiega Bellu -. Ma quando un commento razzista c’è da due giorni, non può essere sfuggito”. Per questo servono regole condivise, aggiunge Bellu. “Se io vedo che un organo di stampa in modo sistematico pubblica certi articoli, con una certa titolazione, negativa o evocativa, i commenti di odio prima o poi arrivano. Se poi glieli lascio, mi viene il dubbio che quei commenti facciano parte dell’articolo, con la differenza che non si ha il coraggio di utilizzare quelle espressioni e in modo subdolo si affida la parte più violenta a queste truppe di portatori d’odio. E questa è una grandissima responsabilità”. (ga)