La morte e la pietà: cosa può cambiare quella foto che ci ha messo in crisi

04set2015

Andrea Pogliano interviene sull’immagine del piccolo Aylan tenuto in braccio dal soldato turco. “La morte è stata a lungo sostituita dal regime visivo dell’umanitario, prestando il fianco alla retorica sul ‘buonismo dell’accoglienza’. Ora potrebbe innescarsi un processo diverso”

La morte e la pietà: cosa può cambiare quella foto che ci ha messo in crisi

di Andrea Pogliano*

Esistono due serie di fotografie con il piccolo Aylan. Il primo comprende anche il poliziotto turco; l’altro invece lo esclude, mostrando solo il cadavere del bambino siriano. Solo il primo gruppo include il gesto pietoso all’interno della fotografia, senza demandarlo interamente allo spettatore. Quest’ultima immagine non mostra il volto del cadavere: subordina la rappresentazione della morte alla rappresentazione della pietà. È stata questa la più pubblicata sui media tradizionali nel mondo. Si tratta di una scelta comprensibilissima e si potrebbero citare molti casi in cui si è preferito evocare la morte o la sofferenza piuttosto che mostrarla direttamente.

Certo, la deontologia giornalistica dovrebbe spingere a evitare immagini di cadaveri, a maggior ragione di bambini. Lo dicono le carte deontologiche più o meno a tutte le latitudini. Ma ci sono un paio di questioni.

La prima è che il mondo della comunicazione è radicalmente cambiato. Tutte e due le immagini giravano già, erano in rete. Quando, nel 2003, domandai alla photoeditor di Libération perché continuavano a pubblicare solo la fotografia dell’uomo incappucciato per ricordare le torture nel carcere iracheno di Abu Ghraib, lei mi rispose che non c’era bisogno di mostrare quelle più scandalosamente pornografiche, bastava “citarle”, perché tanto tutti le avevano già viste.

In Italia, La Stampa e il Manifesto hanno messo ieri in prima pagina l’immagine del bambino, ossia quella che rappresenta la morte senza mettere in scena la pietà. Su La Stampa, Mario Calabresi scrive che nasconderci questa immagine avrebbe significato prenderci in giro. Fa sorridere. Come se si fosse ancora nei primi anni Novanta. Ma la scelta assume invece il senso pieno di un messaggio, forse persino di un messaggio necessario, come emerge dalle ultime righe del suo scritto.

Siamo alla seconda questione. Quell’immagine avrebbe finito per ricordare le tante immagini già mostrate di bambini soccorsi, tenuti in braccio da uomini della marina militare, finanzieri, carabinieri o poliziotti sui moli del Sud Italia. La morte, invece, sebbene sia stata spesso evocata a parole, non si è quasi mai vista in questi decenni di immigrazione. La morte è stata a lungo sostituita visivamente dalla pietà, dal gesto caritatevole: dal regime visivo dell’umanitario. Questa sostituzione ha prestato il fianco a tutta la retorica sul “buonismo dell’accoglienza”.

Nell’ottobre del 2013, con la strage di Lampedusa, la morte l’abbiamo vista; la rappresentazione degli sbarchi è cambiata; su quelle immagini si è creata un’indignazione nuova che ha offerto il coraggio per l’operazione Mare Nostrum.

La rappresentazione della morte senza la rappresentazione della pietà porta un discorso che è rimasto taciuto troppo a lungo nel racconto dell’emigrazione/immigrazione. Non è un discorso indiretto, che vira sulla nostra solidarietà, i suoi pregi e i suoi limiti. È invece un discorso diretto, su quel dramma e su di noi che lo guardiamo da casa. Ne usciamo spogliati di quella visione da riunione di condominio (casa nostra, casa loro); sporchi, nella nostalgia per il piccolo mondo antico, ora che ci si accorge del prezzo che assume l’appagamento di questo sentimento; persino ridicoli nell’usare la metafora idraulica, propagandando che si possa fermare l’immigrazione.

Poi ognuno tornerà nella sua pelle, dopo un silenzio imbarazzato o una piccola acrobazia retorica; spostando il discorso sulla foto e se sia giusto o no mostrarla, ritornando a dar battaglia coi suoi abiti migliori, cercando di non pensare che si è trovato, grazie a una foto, per un istante, nudo di fronte alla storia.

Non credo in termini assoluti nell’assuefazione da immagini: di cadaveri di bambini in fotografia ne abbiamo già visti tutti più di quanto avremmo immaginato, pur avendo noi il privilegio – tra i pochi al mondo – di vederli solo in immagine. Eppure quella non è una foto di guerra, non arriva da dove ormai la aspettiamo, come se fosse ovvia (è la guerra, bellezza). E’ una foto di immigrazione. Meglio ancora: condensa guerra e immigrazione.

Si scopre così che le vittime innocenti di guerre sporche e i clandestini brutti sporchi e cattivi possono essere la stessa cosa e proprio per questo può aprire delle crepe in quel muro politico-mediatico che ci ha abituato a vedere gli immigrati senza vedere gli emigrati.

Nel derby che sembra non finire mai tra fazioni che si danno reciprocamente dei “razzisti” e dei “buonisti” senza che il discorso pubblico avanzi di un passo, questa immagine risulta nuova. È questo il senso che do alla sua straordinaria circolazione e ai fiumi di commenti che ne sono scaturiti. Magari non cambierà troppo la politica e le opinioni, ma potrebbe innescare un processo. Le icone, spesso, sono servite a tale scopo.

* Ricercatore presso l’Università del Piemonte Orientale, dove attualmente insegna sociologia dei media. Si occupa principalmente di giornalismo e fotogiornalismo sui temi dell’immigrazione e delle crisi. È autore tra l’altro di “Le immagini delle notizie. Sociologia del fotogiornalismo” (Unicopli 2009). È anche uno degli autori dei testi del progetto “Questione d’immagine”, realizzato da Redattore sociale, Parsec e Zona, che attraverso l’analisi delle fotografie e dei servizi video dei principali media nazionali,indaga i meccanismi e le insidie nell’uso delle immagini sui temi sociali, con i relativi rischi di discriminazione delle minoranze. I risultati del progetto, primo in Italia nel suo genere, saranno presentati a Roma a metà ottobre 2015.