La pancia gonfia del bimbo africano: è polemica sulla raccolta fondi
ROMA – E’ proprio necessario far vedere la pancia di Jon per raccogliere fondi? Una delle più storiche organizzazioni non governative non trova di meglio, a quarantacinque anni dalla guerra e fame del Biafra, che ripescare il crudele cliché dello scheletrino africano? E’ polemica su un noto spot per la raccolta fondi di Save the children, in onda sui principali mezzi di comunicazione. A scatenare il dibattito sono Pier Maria Mazzola e Marco Trovato, in un durissimo editoriale, dal titolo “Fame di spot”, pubblicato su Africa rivista. Ma l’organizzazione replica: “Siamo consapevoli che quelle immagini possono toccare la sensibilità di qualcuno. Ma a nostro giudizio vanno trasmesse perché il grido di quei bambini non può restare inascoltato”.
La polemica: “Immagini del dolore per strappare 9 euro al mese”. Nella pubblicità si vede la telecamera indugiare sul viso e lo stomaco gonfio di un bambino denutrito, Jon, che ha solo due anni. Sua mamma, dice lo spot, “fa quel che può per nutrirlo, ma non c’è cibo in casa” e così, come tanti altri bambini malnutriti anche lui rischia di morire di fame. Per questo la voce fuori campo chiede ai telespettatori di fare una donazione a Save the children, per aiutare l’organizzazione a fermare la fame e salvare molte vite. Ma per "Africa rivista" si tratta di “immagini strazianti che durano un’eternità” e che hanno il solo scopo di “impietosire i telespettatori per strappar loro nove euro al mese”.
Senza mettere in discussione l’operato sul campo di Save the Children; Mazzola e Trovato criticano in particolare il fatto che lo spot porti a fare “tabula rasa di tutto un ormai lungo e articolato processo di riflessione sull’utilizzo delle immagini di dolore”. “È lecito (e fin dove? E in quali contesti di fruizione?) sbattere il mostro in prima pagina? Anche se il mostro è in realtà la vittima – si chiedono - La sua immagine fotografica, fissa o in movimento, è comunque il risultato di una violazione della sua intimità” . E ancora: “Qui è messa a nudo la sofferenza dei minori – sottolineano - Che fine ha fatto la Carta di Treviso? Parliamo del codice deontologico a uso dei giornalisti italiani stilato d’intesa con Telefono Azzurro, in cui si esige di porre particolare attenzione nella diffusione delle immagini e delle vicende riguardanti bambini malati, feriti o disabili. Vale solo per gli italiani? Per i bambini bianchi? E poi – continuano– viene rinsaldato, una volta di più e con mezzi mediatici potenti, il già ben radicato immaginario coloniale dell’Occidente sull’Africa, che a suo tempo fu alimentato – lo riconosciamo – a fin di bene anche dai missionari. Ma questa oggi non è più, se mai lo fu, un’attenuante. È anzi un’aggravante. Inescusabile soprattutto oggi, quando sappiamo di vivere in un mondo ben diverso dagli anni del Biafra, un’era in cui l’informazione disponeva di strumenti infinitamente inferiori e una letteratura critica sull’umanitario non era ancora stata elaborata”.
La replica: “Far vedere situazioni inaccettabili per spingere persone a reagire”. Save the children replica alle critiche sottolineando che questo è solo uno degli stili comunicativi utilizzati nelle campagne di raccolta fondi dell’organizzazione, ma comunque necessario, per mostrare situazioni di miseria estrema che ancora esistono nel continente africano. “Siamo perfettamente consapevoli che le immagini di questo spot raccontano solo una parte dell’Africa – sottolinea Daniele Timarco, direttore dei programmi internazionali di Save the Children Italia - ma si tratta di una realtà che chi opera sul campo vede ogni giorno e che noi vogliamo cambiare. A nostro parere, proprio perché inaccettabili, sono immagini anche giuste da trasmettere con l’obiettivo di sensibilizzare e spingere le persone a reagire con indignazione”.
Dal 2009, ricorda Timarco, Save the children ha lanciato la campagna “Everyone” contro la mortalità infantile: “Ogni anno in Africa muoiono 6 milioni e mezzo di bambini sotto i cinque anni. Questi numeri sono drammatici – aggiunge - e per far conoscere questo tipo di situazione noi riteniamo che sia giusto usare toni diversi. E’ un modo per mostrare un’ingiustizia che non può essere più accettata. L’Africa continua ad essere il continente con i più alti tassi di mortalità infantile al mondo e la malnutrizione affligge tantissimi suoi paesi”.
Ma è proprio necessario utilizzare immagini così forti, coinvolgendo un bambino malnutrito? “Le nostre sono immagini forti ma non estreme, come quelle dei bambini del Biafra.
In un nostro spot non si vedrà mai il bambino affamato con la mosca, per intenderci. Certo, sappiamo che queste immagini possono comunque toccare la sensibilità di qualcuno ma pensiamo anche che il grido di dolore di questi bambini non possa rimanere inascoltato – continua Timarco -. Le immagini sono state realizzate con il consenso dei genitori, con il coinvolgimento dei bambini e delle bambine e della comunità stessa. Molto spesso sono le famiglie stesse che ci chiedono di raccontata la loro vera storia, di far vedere la drammaticità delle loro situazioni. E nel momento in cui noi raccontiamo tutto questo riusciamo anche a contribuire in maniera importante, a portare aiuti concreti alla popolazione e alle stesse famiglie coinvolte. Quelle che raccontiamo sono tutte storie a lieto fine, di bambini che hanno poi riacquistato il sorriso. E’ un meccanismo attraverso il quale riusiamo a proteggerli. Per noi – conclude - è importante sensibilizzare le persone che vivono in contesti più fortunati, perché vogliamo che tutti si impegnino a cambiare le cose, non ci interessa solo che venga fatta una donazione. Vogliamo toccare la coscienza delle persone al di là del contributo economico”. (ec)