Con Bomprezzi se ne va un pezzo di storia del giornalismo sociale in Italia

19dic2014

È stato il primo, il più autorevole e autoironico giornalista disabile a essere riuscito a fare passare il suo handicap in secondo piano rispetto alle sue capacità di professionista. Innovatore instancabile, ha contribuito a cambiare il linguaggio e l’approccio dei media

Franco Bomprezzi ha fatto la storia del giornalismo sociale in Italia. E’ stato il primo, il più autorevole, il più brillante e autoironico giornalista disabile a essere riuscito a fare passare il suo handicap in secondo piano rispetto alle sue eccezionali capacità di professionista. Bomprezzi è stato un marchio di qualità, un brand, uno stile che in tanti cercavano di imitare senza riuscirci. Un galantuomo, anche. Oltre che un innovatore sfrenato.

Bomprezzi è stato il punto di riferimento in Italia per una generazione di giornalisti sociali, il primo a trattare temi scomodi, come quello della sessualità ad esempio, l’unico a cercare di arginare quel lento scivolamento verso il “politically correct” che tanto male ha fatto alle persone disabili, e ai progetti di inclusione delle loro associazioni. Un giornalista vero, e un grande commentatore. Una mente fertile e giocosa, con quella leggerezza che solo in pochi riescono a mantenere quando, anche solo per scendere dalla macchina e infilarsi dietro una scrivania, doveva spendere il triplo delle energie di qualunque altro comune mortale.

"Il giornalista sociale non deve essere buono - aveva detto ad un seminario organizzato da Redattore sociale a Milano nel 2011 - Deve essere bravo e fare bene il suo mestiere" (qui il video dell'intervento).

Sue le tante idee suggerite nel codice di autoregolamentazione della Rai per le persone disabili (un codice etico-linguistico), varato dal Segretariato Sociale del servizio pubblico radiotelevisivo nel 1998. Un documento innovatore e coraggioso per quegli anni (l’aveva curato Giuliana Ledovi, con Stefano Trasatti, Giovanni Anversa, Salvatore Nocera e lo stesso Bomprezzi), una summa di quelle “buone prassi” con cui tanti si sono sciacquati la bocca dalla fine degli anni novanta, e che pochi poi hanno messo in pratica nei loro palinsesti o anche solo sulle pagine dei loro giornali. Sulle news, ad esempio, Bomprezzi invitava a chiudere il ciclo della notizia, a tenere conto delle persone disabili anche in contesti informativi non specifici, a completare le notizie di servizio anche con le informazioni per i disabili. Poi spazio all’accessibilità, alla mobilità per tutti. Per una nuova cultura della disabilità. Facile a dirsi, meno a praticarsi.

Sul fronte del linguaggio aveva continuato a lavorare per anni, come nel 2013 quando aveva contribuito sostanzialmente alle schede sulla disabilità realizzate per “Parlare civile”, il progetto sulle parole a rischio di discriminazione realizzato da Redattore Sociale in collaborazione con l’associazione Parsec.

“Sentiamo Bomprezzi cosa dice”. La frase era ricorrente, e non solo nelle redazioni delle riviste specializzate, ma anche sul mainstream Bomprezzi da tempo aveva trovato casa. Così, tra Superabile.it e il Corriere.it, quello strano giornalista in carrozzina sempre disponibile, gentile, mai sopra le righe, ha costruito un pezzo importante di storia dell’informazione sulla disabilità in Italia. E forse il pezzo più importante.

Diceva: “Per una informazione corretta sulla disabilità, bisogna eliminare dal linguaggio giornalistico (e radiotelevisivo) locuzioni stereotipate, luoghi comuni, affermazioni pietistiche, generalizzazioni e banalizzazioni. Concepire titoli che riescano a essere efficaci e interessanti senza cadere nella volgarità o nell’ignoranza e rispettando il contenuto della notizia”. Ecco, ora come faremo? (Mauro Sarti)