Samuel Aranda, il foto-giornalismo per il cambiamento. “Credo nel ruolo sociale della fotografia”

14gen2013
Intervista al vincitore del Word Press Photo 2012. “Credo che un lavoro etico sia l’unico modo per superare la crisi della carta stampata”. Su Napoli: “Contro la camorra bisogna istruire i bambini e costruire a Scampia il parco più grande del mondo"

NAPOLI - Per Samuel Aranda, classe 1979, vincitore del Word Press Photo, scattare fotografie ha uno scopo preciso: "far conoscere il mondo e cercare di cambiarlo". Samuel, scarponi vissuti che hanno visto mezzo mondo, pubblica sui maggiori quotidiani europei e americani e lavora su temi complessi e drammatici: ha seguito i percorsi dell'immigrazione in Mali, Algeria, Canarie, Mar Rosso; è stato a Gaza tra il 2005 e il 2006 e durante la guerra del Libano nel 2006; ha immortalato la Primavera Araba tra Tunisi, l'Egitto e lo Yemen.
Invitato a Napoli dall'Associazione Neapolis Art, che per il terzo anno consecutivo ha portato la mostra delle più belle fotografie del mondo a Napoli (nel Chiostro di Santa Chiara), Aranda racconta il suo impegno sociale.

Tanti giovani vorrebbero fare il tuo mestiere. Tu come hai fatto?

Sono nato e cresciuto in un quartiere umile e periferico di Barcellona, la mia famiglia era emigrata dall'Andalusia e non ho avuto molte possibilità di studiare. A 19 anni lavoravo nella compagnia del gas leggendo i contatori. Mi annoiavo molto, ma ogni giorno con il mio  motorino avevo l'opportunità di girare la città e vedere tante cose. A fine anni '90 Barcellona viveva un momento di rivoluzione: da un lato i lavori per il Forum della Cultura con cantieri per la ristrutturazione ovunque, dall'altro le rivolte sociali e le occupazioni represse duramente. Spesso i giornalisti non avevano accesso nella zona periferica dove vivevo io così iniziai a scattare foto e i giornali a comprarle. Capii che l'impatto di un'immagine sui giornali è fortissima e che è una forma di lotta per il cambiamento più efficace del tirare pietre. Se non avessi fatto il fotogiornalista sarei stato un rivoluzionario. Credo molto nel ruolo sociale della fotografia.

Hai iniziato ben presto a viaggiare, soprattutto in Medio Oriente. Come mai?

Quando ero piccolo avevo un amico palestinese e uno israeliano, si odiavano tra di loro anche se avevano stessi gusti e abitudini. Il primo viaggio lo feci per curiosità, per capire quell'odio e andai in Palestina. Quando scelgo di fare un reportage lo faccio a seconda di ciò che mi interessa e sento più vicino. Ad esempio mi identifico molto nei giovani dello Yemen che lottano per il cambiamento. In generale in Medio Oriente è più facile lavorare: le persone non hanno paura di essere fotografate come in Europa, sono molto accoglienti e comunicative.

Deve esserci
un'etica nel fotogiornalismo? Come approcci le realtà che scegli di raccontare?
Ho lavorato per due anni con l'Agenzia France Press, cambiavo paese ogni due, tre settimane e non avevo il tempo di conoscere la gente. Ma i tempi e i modi imposti dall'industria del fotogiornalismo ti costringono ad un approccio superficiale alla realtà.
Ma è stato nel 2006 che un'esperienza ha cambiato il mio modo di lavorare. Ero a Gaza in una bella giornata di sole con altri giornalisti e fotografi ad un bar affacciato sulla spiaggia e una nave israeliana arrivò dal mare bombardando la spiaggia e uccidendo un'intera famiglia, si salvò solo la bambina più grande. Io inviai la foto a France Press con i 3 bambini della famiglia morti e un testo in cui spiegavo l'accaduto ma, sul giornale furono pubblicate due versioni: quella palestinese secondo la quale era stata bombardata la spiaggia, e una fonte israeliana secondo la quale erano stati i palestinesi ad aver interrato una bomba che era esplosa. Capii che il mio lavoro era diventato un prodotto e che non importava che io avevo visto la verità con i miei occhi. Perciò sono diventato free lance. Quando scelgo qualcosa da raccontare, mi documento a fondo e resto nel posto per alcuni mesi, in alcuni casi anche anni. Spesso del mondo arabo si trovano solo immagini iconografiche, legate al pregiudizio nei confronti dei mussulmani considerati violenti, mentre chiaramente non è così. Credo che un lavoro etico e originale sia l'unico modo per superare la crisi della carta stampata, puntando alla qualità.

Come nasce la fotografia vincitrice del Word Press Photo 2012? Molti l'hanno paragonata alla Pietà di Michelangelo…

Era il 15 ottobre 2011 e c'era una manifestazione nella capitale dello Yemen, i franco tiratori bombardarono e morirono 15 persone. Per sfuggire entrai in una moschea dove era stato allestito un ospedale da campo. E' là che ho ritratto Fatima e suo figlio Said di 18 anni intossicato dai lacrimogeni. Quando ho vinto il premio un giornalista mi chiamò per intervistarmi e mi chiese della foto che assomigliava alla "Pietà". Ma io vengo da una famiglia comunista e non sono religioso, così non conoscevo la scultura che ritrae la Madonna e Gesù. Andai subito a documentarmi su internet.
Spesso si vogliono apporre etichette a tutto, per me la foto è semplicemente quella di una madre e di un figlio. Ma se grazie a una foto una signora italiana che vede la mia foto resta colpita perché le sembra un quadro e così si interessa allo Yemen è una cosa positiva.

Quali studi hai realizzato per arrivare ad un tale livello estetico?

Ha frequentato un solo corso a Barcellona per due mesi ma lo lasciai perché c'era troppa tecnica. Lavoro d'istinto, in generale preferisco il bianco e nero, ma in luoghi con una particolare luce come lo Yemen, ho usato il colore. L'estetica deriva dall'esperienza, dalle tante fotografie che ho visto. Mi piace fare ritratti che non sono mai posati, perché è nei volti, nelle espressioni che meglio si comprende la realtà sociale.
L'estetica formale è un mezzo per far conoscere il mondo. Se qualcuno vede una mia foto e la trova bella e così si incuriosisce per la situazione in Medio Oriente ho raggiunto il mio scopo.

Tu hai raccontato Napoli, raccontato la camorra partendo dalla situazione sociale, non dai colpi di pistola.

Sono stato a Napoli due mesi e ho avuto la fortuna di conoscere dei giovani vicini alla camorra che mi hanno indirizzato, mi hanno fatto entrare nelle case. Un ragazzino di 14 anni dei Quartieri Spagnoli che non ha un posto dove andare a giocare è facile che cada nelle maglie della camorra. Questo non giustifica, ma fa comprendere perché a Scampia e nei Quartieri tante famiglie lavorano a contatto con la camorra, è perché non hanno alternative.
Perché la camorra finisca bisogna prendere i bambini e farli studiare e costruire il parco verde più grande del mondo a Scampia. La camorra mi fa pensare ai banchieri.
La casa che ho appena acquistato con un mutuo costa 95 mila euro, ma quando tra 25 anni finirò di pagarla avrò speso 210 mila euro. E se non pago mi mandano la polizia a casa, non fa così la camorra che presta il denaro o impiega le persone nella droga?

Pensi realmente che la fotografia possa cambiare il mondo?

Nel 2004, 2 mila immigrati africani in Spagna, senza essere giudicati da un tribunale, come vuole la legge, furono deportati dal Governo marocchino, pagato dal Governo spagnolo, nel deserto ai confini dell'Algeria, in una zona militare, senza acqua né viveri. Avvisato da Medici Senza Frontiere, mi sono nascosto nel cofano di un'auto e ho incontrato e fotografato i migranti. Ne erano morti già 180 quando grazie alle foto pubblicate sulla stampa internazionale, il Governo spagnolo è stato costretto a chiedere scusa pubblicamente e a pagare per riportare le persone in Marocco. La mia foto ha salvato la vita a oltre mille persone. Ecco perché lo penso.

Non hai mai paura?

Ho paura perché altrimenti sarei un pazzo, ma questo è il lavoro che ho scelto e che amo. (Alessandra Del Giudice - Napoli Città Sociale)