Samuel Aranda, il foto-giornalismo per il cambiamento. “Credo nel ruolo sociale della fotografia”
NAPOLI - Per Samuel Aranda, classe 1979, vincitore del Word
Press Photo, scattare fotografie ha uno scopo preciso: "far
conoscere il mondo e cercare di cambiarlo". Samuel, scarponi
vissuti che hanno visto mezzo mondo, pubblica sui maggiori
quotidiani europei e americani e lavora su temi complessi e
drammatici: ha seguito i percorsi dell'immigrazione in Mali,
Algeria, Canarie, Mar Rosso; è stato a Gaza tra il 2005 e il 2006 e
durante la guerra del Libano nel 2006; ha immortalato la Primavera
Araba tra Tunisi, l'Egitto e lo Yemen.
Invitato a Napoli dall'Associazione Neapolis Art, che per il terzo
anno consecutivo ha portato la mostra delle più belle fotografie
del mondo a Napoli (nel Chiostro di Santa Chiara), Aranda racconta
il suo impegno sociale.
Tanti giovani vorrebbero fare il tuo mestiere. Tu come hai
fatto?
Sono nato e cresciuto in un quartiere umile e periferico di
Barcellona, la mia famiglia era emigrata dall'Andalusia e non ho
avuto molte possibilità di studiare. A 19 anni lavoravo nella
compagnia del gas leggendo i contatori. Mi annoiavo molto, ma ogni
giorno con il mio motorino avevo l'opportunità di girare la
città e vedere tante cose. A fine anni '90 Barcellona viveva un
momento di rivoluzione: da un lato i lavori per il Forum della
Cultura con cantieri per la ristrutturazione ovunque, dall'altro le
rivolte sociali e le occupazioni represse duramente. Spesso i
giornalisti non avevano accesso nella zona periferica dove vivevo
io così iniziai a scattare foto e i giornali a comprarle. Capii che
l'impatto di un'immagine sui giornali è fortissima e che è una
forma di lotta per il cambiamento più efficace del tirare pietre.
Se non avessi fatto il fotogiornalista sarei stato un
rivoluzionario. Credo molto nel ruolo sociale della
fotografia.
Hai iniziato ben presto a viaggiare, soprattutto in Medio Oriente.
Come mai?
Quando ero piccolo avevo un amico palestinese e uno israeliano, si
odiavano tra di loro anche se avevano stessi gusti e abitudini. Il
primo viaggio lo feci per curiosità, per capire quell'odio e andai
in Palestina. Quando scelgo di fare un reportage lo faccio a
seconda di ciò che mi interessa e sento più vicino. Ad esempio mi
identifico molto nei giovani dello Yemen che lottano per il
cambiamento. In generale in Medio Oriente è più facile lavorare: le
persone non hanno paura di essere fotografate come in Europa, sono
molto accoglienti e comunicative.
Deve esserci un'etica nel fotogiornalismo? Come
approcci le realtà che scegli di raccontare?
Ho lavorato per due anni con l'Agenzia France Press, cambiavo
paese ogni due, tre settimane e non avevo il tempo di conoscere la
gente. Ma i tempi e i modi imposti dall'industria del
fotogiornalismo ti costringono ad un approccio superficiale alla
realtà.
Ma è stato nel 2006 che un'esperienza ha cambiato il mio modo di
lavorare. Ero a Gaza in una bella giornata di sole con altri
giornalisti e fotografi ad un bar affacciato sulla spiaggia e una
nave israeliana arrivò dal mare bombardando la spiaggia e uccidendo
un'intera famiglia, si salvò solo la bambina più grande. Io inviai
la foto a France Press con i 3 bambini della famiglia morti e un
testo in cui spiegavo l'accaduto ma, sul giornale furono pubblicate
due versioni: quella palestinese secondo la quale era stata
bombardata la spiaggia, e una fonte israeliana secondo la quale
erano stati i palestinesi ad aver interrato una bomba che era
esplosa. Capii che il mio lavoro era diventato un prodotto e che
non importava che io avevo visto la verità con i miei occhi. Perciò
sono diventato free lance. Quando scelgo qualcosa da raccontare, mi
documento a fondo e resto nel posto per alcuni mesi, in alcuni casi
anche anni. Spesso del mondo arabo si trovano solo immagini
iconografiche, legate al pregiudizio nei confronti dei mussulmani
considerati violenti, mentre chiaramente non è così. Credo che un
lavoro etico e originale sia l'unico modo per superare la crisi
della carta stampata, puntando alla qualità.
Come nasce la fotografia vincitrice del Word Press Photo 2012?
Molti l'hanno paragonata alla Pietà di Michelangelo…
Era il 15 ottobre 2011 e c'era una manifestazione nella capitale
dello Yemen, i franco tiratori bombardarono e morirono 15 persone.
Per sfuggire entrai in una moschea dove era stato allestito un
ospedale da campo. E' là che ho ritratto Fatima e suo figlio Said
di 18 anni intossicato dai lacrimogeni. Quando ho vinto il premio
un giornalista mi chiamò per intervistarmi e mi chiese della foto
che assomigliava alla "Pietà". Ma io vengo da una famiglia
comunista e non sono religioso, così non conoscevo la
scultura che ritrae la Madonna e Gesù. Andai subito a
documentarmi su internet.
Spesso si vogliono apporre etichette a tutto, per me la foto è
semplicemente quella di una madre e di un figlio. Ma se grazie a
una foto una signora italiana che vede la mia foto resta colpita
perché le sembra un quadro e così si interessa allo Yemen è una
cosa positiva.
Quali studi hai realizzato per arrivare ad un tale livello
estetico?
Ha frequentato un solo corso a Barcellona per due mesi ma lo
lasciai perché c'era troppa tecnica. Lavoro d'istinto, in generale
preferisco il bianco e nero, ma in luoghi con una particolare luce
come lo Yemen, ho usato il colore. L'estetica deriva
dall'esperienza, dalle tante fotografie che ho visto. Mi piace fare
ritratti che non sono mai posati, perché è nei volti, nelle
espressioni che meglio si comprende la realtà sociale.
L'estetica formale è un mezzo per far conoscere il mondo. Se
qualcuno vede una mia foto e la trova bella e così si incuriosisce
per la situazione in Medio Oriente ho raggiunto il mio scopo.
Tu hai raccontato Napoli, raccontato la camorra partendo dalla
situazione sociale, non dai colpi di pistola.
Sono stato a Napoli due mesi e ho avuto la fortuna di conoscere
dei giovani vicini alla camorra che mi hanno indirizzato, mi hanno
fatto entrare nelle case. Un ragazzino di 14 anni dei Quartieri
Spagnoli che non ha un posto dove andare a giocare è facile che
cada nelle maglie della camorra. Questo non giustifica, ma fa
comprendere perché a Scampia e nei Quartieri tante famiglie
lavorano a contatto con la camorra, è perché non hanno
alternative.
Perché la camorra finisca bisogna prendere i bambini e farli
studiare e costruire il parco verde più grande del mondo a Scampia.
La camorra mi fa pensare ai banchieri.
La casa che ho appena acquistato con un mutuo costa 95 mila euro,
ma quando tra 25 anni finirò di pagarla avrò speso 210 mila euro. E
se non pago mi mandano la polizia a casa, non fa così la camorra
che presta il denaro o impiega le persone nella droga?
Pensi realmente che la fotografia possa cambiare il
mondo?
Nel 2004, 2 mila immigrati africani in Spagna, senza essere
giudicati da un tribunale, come vuole la legge, furono deportati
dal Governo marocchino, pagato dal Governo spagnolo, nel deserto ai
confini dell'Algeria, in una zona militare, senza acqua né viveri.
Avvisato da Medici Senza Frontiere, mi sono nascosto nel cofano di
un'auto e ho incontrato e fotografato i migranti. Ne erano morti
già 180 quando grazie alle foto pubblicate sulla stampa
internazionale, il Governo spagnolo è stato costretto a chiedere
scusa pubblicamente e a pagare per riportare le persone in Marocco.
La mia foto ha salvato la vita a oltre mille persone. Ecco perché
lo penso.
Non hai mai paura?
Ho paura perché altrimenti sarei un pazzo, ma questo è il lavoro
che ho scelto e che amo. (Alessandra Del Giudice - Napoli Città
Sociale)