“Ecco la fotografia che i media vogliono”. A Redattore Sociale i “falsi” di un’editoria malata
CAPODARCO DI FERMO - Qual è la fotografia che i media vogliono? Qual è il ruolo del foto-giornalista, quale compito può svolgere in un contesto editoriale sempre più statico e, per dirla con una dei relatori, "malato"?
Seconda mattinata del seminario Redattore Sociale caratterizzata dai workshop tematici. E in uno di questi a far da protagonista era proprio la fotografia, grazie alla presenza di Giulia Tornari dell'agenzia Contrasto e del giovanissimo reporter Ruben Salvadori, vero enfant prodige con i suoi 23 anni del foto-giornalismo italiano. Salvadori, nonostante la giovanissima età, ha già passato 3 anni e mezzo a Gerusalemme e un anno a New York, facendosi notare per un lavoro importante svolto proprio vicino alla città vecchia di Gerusalemme dove, ogni venerdì al termine della preghiera, inizia la rivolta delle persone contro le forze israeliane. Di fatto, Salvadori ha cominciato ad osservare i fotografi, il loro modo di operare. Fotografi intenti a immortalare giovani in posa, intenti a lanciare pietre con un avversario che non c'era, a bruciare bandiere davanti a un obiettivo. A fotografare, insomma, una realtà non dinamica, non caratterizzata da quell'aggressività che la situazione lascia spesso intuire. Morale della favola, ha evidenziato falsificazioni e forzature.
E tutto questo perché così vuole la grande informazione stereotipata, quell'informazione che sembra dipanarsi sempre secondo logiche e percorsi stabiliti. Ne è scaturito il progetto "Photojournalism behind the scenes".
"Ho cominciato a pormi domande sul nostro ruolo e su ciò che vogliamo descrivere - ha affermato Salvadori -. A volte cerchiamo dinamicità anche laddove la situazione è tranquilla. C'è la tendenza a costruire e decostruire la drammaticità degli avvenimenti, anche se il fotografo dovrebbe rimare fuori dai contesti, non prenderne parte. In realtà molti fotografi dicono che non ha senso parlare della nostra influenza sui luoghi. Tuttavia, per me è scioccante il fatto che dei professionisti non considerino importante questa cosa. E proprio per questo motivo ho cominciato a studiare il fenomeno".
Fotografi che immortalano la realtà, in un gioco di causa-effetto imprevedibile. Afferma Salvadori: "Pensate una cosa: se una persona impugna un telefonino e comincia a scattare una foto, di riflesso la persona immortalata tende a mettersi in posa. Figurarsi cosa può succedere quando davanti si hanno 20 o 30 fotografi! Sono situazioni che si presentano spesso: la situazione è quella di avere tutti le stesse foto, se possibile con qualcosa in più degli altri. E spesso i fotografi sono dentro le scene, ne sono parte integrante! C'è ritualità. E le azioni e gli oggetti fanno parte di questa ritualità".
Per Giulia Tornari, quello di Ruben Salvadori è "un lavoro provocatorio". Ma qual è il fine del suo lavoro? Dove vuole arrivare decostruendo un lavoro di testimonianza del fotogiornalista? "Io non ho intenzione di dettare legge sul futuro del giornalismo - sottolinea Salvadori -. Per me però è importante porsi delle domande. E ho visto che in pochi si pongono delle domande. Il meccanismo è frutto di elite che decidono e di un pubblico passivo. Vorrei far capire come questo meccanismo può essere concepito come 'circolo', in cui ogni anello ha vita propria. Dovremmo essere noi, allora, a influenzare il mercato per dettare una direzione. In realtà speriamo solo che il mercato cambi, non facendo abbastanza. Pensiamo a Gerusalemme: lo schema base è quello del bambino che tira le pietre e del soldato che spara. Ma se vogliamo capire perché le cose accadono dobbiamo conoscere le realtà, che sono diverse. In caso contrario è solo una gara a chi grida più forte la propria narrativa".
E così i grandi giornali decidono cosa è importante, e chi fa informazione - anche fotografica - si adatta. "Ci sono Paesi che vengono rappresentati sempre allo stesso modo - spiega la Tornari -. Per continuare a farlo, si è forzato l'estetica, dimenticandosi il contenuto…".
Così si preferisce affidarsi alle grandi agenzie internazionali, che fanno i loro interessi, piuttosto che investire nelle figure del photo editor. Abbiamo un'editoria malata: da una parte i giornali legati alla politica, dall'altra i magazine che sono fatti dal marketing, dalla pubblicità"