Carcere e media, arriva la Carta di Milano per l'informazione corretta

20nov2012
Il garante dei detenuti del Lazio interviene al dibattito sulla Carta di Milano, protocollo etico per i giornalisti che trattano notizie sulle pene carcerarie. Di Giovan Paolo: “Diventi al più presto uno strumento nazionale”

ROMA - "Se il film Cesare deve morire dei fratelli Taviani, candidato italiano all'Oscar, lo vince, è un messaggio enorme perché in quel film hanno recitato solo detenuti di alta sicurezza, detenuti che hanno commesso reati gravi". È quanto ha affermato il Garante dei detenuti del Lazio Angiolo Marroni nella sede dell'Associazione Stampa romana in occasione della presentazione della Carta di Milano" sul carcere e la pena. "Nel Lazio circa 100 detenuti sono universitari con diversi atenei - ha aggiunto- in realtà se si vuole uscire dal crimine il problema non è tanto il lavoro, ma è la cultura". Secondo Marroni, inoltre, in questo momento il tema dei Centri di identificazione e di espulsione è più seguito dai giornalisti rispetto al carcere. Il garante ha poi ricordato un'altra esperienza positiva a Rebibbia: "In alta sicurezza - ha detto - c'è una cooperativa che gestisce le violazioni del telepass,  le violazioni commesse dagli automobilisti in autostrada vengono mandate ai detenuti di alta sicurezza e sono loro che denunciano alla società autostrade".

La Carta di Milano è un protocollo deontologico per operatori dell'informazione che trattano notizie concernenti cittadini privati della libertà o ex detenuti tornati in libertà. Al momento è stata approvata dagli ordini regionali dei giornalisti in Lombardia ed Emilia Romagna. L'intento è che diventi uno strumento etico nazionale, come la Carta di Roma lo è per il tema dei rifugiati e dell'immigrazione. La Carta stimola i giornalisti a "usare termini appropriati in tutti i casi in cui un detenuto usufruisce di misure alternative al carcere o di benefici penitenziari evitando di un ingiustificato allarme sociale e di rendere più difficile un percorso di reinserimento sociale che avviene sotto stretta sorveglianza", ricordando che  "le misure alternative non sono equivalenti alla libertà, ma sono una modalità di esecuzione della pena". Li invita, tra l'altro, a "tutelare il condannato che sceglie di parlare con i giornalisti, adoperandosi perché non sia identificato con il reato commesso, ma con il percorso che sta facendo. E a usare termini appropriati quando si parla del personale in divisa delle carceri italiane: poliziotti, agenti di polizia penitenziaria o personale in divisa".

"Difficoltà a fare percepire all'esterno le cose positive" è stata espressa da Maria Claudia Di Paolo, Provveditore Reg. Amministrazione Penitenziaria Lazio. "Diamo voce anche a gli operatori del carcere, a tutti - ha detto - Si deve creare un'affidabilità di questa istituzione che viene quotidianamente lesa dalle notizie. Facciamo dire a loro quali sono le difficoltà, sono terrorizzati da come si vedono rappresentati. Oltre a vivere una quotidianità pesante, le notizie su di loro e sull'istituzione hanno una ricaduta forte. Dentro al carcere c'è anche un'umanità che nessuno conosce, facciamola conoscere alle persone perché la società si riappropri di questa istituzione".

Mauro Mariani, Direttore del Carcere di Regina Coeli e direttore pro tempore Carcere Rebibbia, ha raccontato la sua esperienza con il caso Fiorito. "Lui ha il diabete, abbiamo fatto in modo con la direzione sanitaria di organizzare una corretta alimentazione - ha spiegato - ma i giornalisti hanno scritto gli hanno negato anche la Coca cola. C'è la tendenza all'allarmismo sociale e al risentimento che poi è funzionale alle politiche della sicurezza. E ci sono omissioni o comunque un'informazione non completa, parziale su alcuni temi: la presunzione di innocenza, il 50% di persone assolte dicono i dati, la bassissima rilevanza della recidiva nell'applicazione di misure alternative. I sucidi, noi operatori penitenizari ci sentiamo colpevolizzati e ci sentiamo colpevoli perché vorremmo fare di più. Nel 2011 ci sono stati centinaia di tentati suicidi e oltre 1000 atti di autolesionismo.  Di questo non si parla, se non sono andati a buon fine è grazie all'intervento di operatori e psicologi".  A Mariani ha replicato Letizia Gonzales, presidente dell'Ordine dei Giornalisti della Lombardia. "I contenuti li scelgono i direttori dei giornali in autonomia- ha detto -  credo sia una questione di sensibilità e di cultura. Il giornalista singolo non basta, perché può fare proposte e il direttore non accettarle. Credo sia un problema di sensibilizzazione".

Roberto Di Giovan Paolo, senatore della Commissione Diritti Umani e Presidente del Forum nazionale per il diritto alla salute in carcere, presente al dibattito, ha dichiarato a Redattore Sociale a margine dell'inziativa:  "speriamo che quanto prima divenga una carta nazionale per fornire linee direttive per parlare correttamente del tema carcere e privazione della libertà in genere. Molto spesso tra i giornalisti non c'è conoscenza piena dei meccanismi del codice di procedura penale e come funziona il carcere". (Raffaella Cosentino)