Carcere, i giornalisti e la presunzione di saper leggere la mente altrui
PADOVA - Per abbattere gli stereotipi sul carcere e sulla pena
bisogna intervenire sull'informazione, troppo votata al
sensazionalismo e troppo poco disposta a entrare nel merito delle
questioni e delle situazioni. Se ne discute a Padova, nel corso del
convegno "I totalmente buoni e gli assolutamente cattivi",
organizzato da Ristretti Orizzonti per favorire un dibattito sano
sul mondo della pena, facendo anche dialogare reclusi e famigliari
di vittime di reato (vedi lanci precedenti). Un esempio di
informazione disonesta è quello raccontato da Andrea, detenuto: "Il
giorno seguente alla mia condanna, sul giornale era scritto che
avevo reagito alla sentenza tranquillamente e che avevo lo sguardo
'di uno cui non importa niente'. Il giornalista ha avuto la
presunzione di capire ciò che io provavo, di interpretare le mie
reazioni senza conoscermi". Elton, un altro recluso, aggiunge: "I
cronisti non hanno tanta voglia di andare a fondo delle cose,
scrivono quello che viene loro detto e dimenticano che oltre al
diritto d'informazione esistono anche altri diritti".
Una fotografia del panorama informativo italiano è fornita da
Paola Barretta dell'Osservatorio di Pavia, che cita i dati del
rapporto realizzato con Demos & Pi: "Emerge una profonda
discrepanza tra la sovrarappresentazione mediatica dei reati,
specialmente quelli comuni, e l'insicurezza dei cittadini, che
perlopiù si incentra altrove, su questioni economiche".
All'informazione italiana, specialmente televisiva, piace sbattere
in prima pagina i fatti di cronaca, con una frequenza che non ha
eguali in Europa. "All'estero non fanno come facciamo noi - spiega
Barretta -: la media europea di notizie legate a crimini nei tg è
del 6%, da noi è oltre il doppio".
Tutto questo clamore e sensazionalismo non aiuta a fare
ragionamenti seri e a promuovere una nuova cultura sul carcere.
"Quando incontriamo gli studenti grazie al nostro progetto con le
scuole - racconta Ornella Favero di Ristretti - capita che alcuni
ragazzi commentino, riferendosi alla condanna di un detenuto, 'si è
fatto solo 17 anni'. La sfida vera è riuscire ad abbattere quel
'solo'. Allora cerchiamo di far immaginare che la lunghezza della
pena equivale alla durata della loro intera vita. Così
riusciamo a far cambiare loro prospettiva e 17 anni non sembrano
più così pochi". Per valutare se il lavoro con le scuole
contribuisce davvero all'abbattimento degli stereotipi,
l'Università di Padova ha dato avvio a una rilevazione d'impatto:
"L'obiettivo - spiega Francesca Vianello, docente di Sociologia - è
di capire se davvero si riesce a decostruire gli stereotipi e a
fare prevenzione. Per quanto riguarda i detenuti, ci interessa
vedere se l'esperienza porta a una rielaborazione del reato". I
primi risultati della rilevazione saranno disponibili a settembre.
(gig)