Carcere, i giornalisti e la presunzione di saper leggere la mente altrui

20mag2011
Convegno di Ristretti Orizzonti. Un detenuto del Due Palazzi di Padova: “Il giornalista ha scritto che dopo la sentenza ero tranquillo. Ma cosa ne sapeva delle mie reazioni ed emozioni?”. Contro la cattiva informazione e gli stereotipi continua il lavoro

PADOVA - Per abbattere gli stereotipi sul carcere e sulla pena bisogna intervenire sull'informazione, troppo votata al sensazionalismo e troppo poco disposta a entrare nel merito delle questioni e delle situazioni. Se ne discute a Padova, nel corso del convegno "I totalmente buoni e gli assolutamente cattivi", organizzato da Ristretti Orizzonti per favorire un dibattito sano sul mondo della pena, facendo anche dialogare reclusi e famigliari di vittime di reato (vedi lanci precedenti). Un esempio di informazione disonesta è quello raccontato da Andrea, detenuto: "Il giorno seguente alla mia condanna, sul giornale era scritto che avevo reagito alla sentenza tranquillamente e che avevo lo sguardo 'di uno cui non importa niente'. Il giornalista ha avuto la presunzione di capire ciò che io provavo, di interpretare le mie reazioni senza conoscermi". Elton, un altro recluso, aggiunge: "I cronisti non hanno tanta voglia di andare a fondo delle cose, scrivono quello che viene loro detto e dimenticano che oltre al diritto d'informazione esistono anche altri diritti".

Una fotografia del panorama informativo italiano è fornita da Paola Barretta dell'Osservatorio di Pavia, che cita i dati del rapporto realizzato con Demos & Pi: "Emerge una profonda discrepanza tra la sovrarappresentazione mediatica dei reati, specialmente quelli comuni, e l'insicurezza dei cittadini, che perlopiù si incentra altrove, su questioni economiche". All'informazione italiana, specialmente televisiva, piace sbattere in prima pagina i fatti di cronaca, con una frequenza che non ha eguali in Europa. "All'estero non fanno come facciamo noi - spiega Barretta -: la media europea di notizie legate a crimini nei tg è del 6%, da noi è oltre il doppio".

Tutto questo clamore e sensazionalismo non aiuta a fare ragionamenti seri e a promuovere una nuova cultura sul carcere. "Quando incontriamo gli studenti grazie al nostro progetto con le scuole - racconta Ornella Favero di Ristretti - capita che alcuni ragazzi commentino, riferendosi alla condanna di un detenuto, 'si è fatto solo 17 anni'. La sfida vera è riuscire ad abbattere quel 'solo'. Allora cerchiamo di far immaginare che la lunghezza della pena equivale alla durata della loro intera vita. Così  riusciamo a far cambiare loro prospettiva e 17 anni non sembrano più così pochi". Per valutare se il lavoro con le scuole contribuisce davvero all'abbattimento degli stereotipi, l'Università di Padova ha dato avvio a una rilevazione d'impatto: "L'obiettivo - spiega Francesca Vianello, docente di Sociologia - è di capire se davvero si riesce a decostruire gli stereotipi e a fare prevenzione. Per quanto riguarda i detenuti, ci interessa vedere se l'esperienza porta a una rielaborazione del reato". I primi risultati della rilevazione saranno disponibili a settembre. (gig)